
Editoriali / Lodi
Giovedì 27 Marzo 2025
La società della stanchezza: tre regole di sopravvivenza
L’era del multitasking ci sta togliendo il senso della vita
Lodi
“Combatti lo stress con melodie dell’intelligenza artificiale”: è solo una delle infinite e ammiccanti proposte che entrano nella nostra quotidianità sotto forma di app e che promettono risultati personalizzati attraverso l’analisi dei nostri bioritmi. Il tutto gratuitamente, perché intanto abbiamo già pagato con la valuta preziosa della condivisione dei nostri dati, fino ai battiti cardiaci. Viene spontaneo domandarsi però qual è la finalità di questo interessamento nei nostri confronti, di questa disponibilità a schierare truppe digitali per sostenere il combattimento corpo a corpo contro lo stress. E la risposta non sembra proprio essere quella di sostenerci nel percorso di presa di coscienza del nostro stato di perenne iperattività da criceti nella ruota per prenderne almeno un po’ le distanze. L’obiettivo è invece quello di farci correre ancora più veloci, per intensificare i ritmi della nostra malleabilità agli stimoli lavorativi e non - flessibilità è infatti una delle parole d’ordine - e per renderci ancora più multitasking - altra parola d’ordine. E siamo stanchi, spesso troppo stanchi, ma ci diciamo che è la prova del nove a dimostrazione della nostra performatività. E quindi va bene così... forse. E quindi dobbiamo continuare a correre nella ruota, aiutati da app, energizzanti o altro per continuare a essere sempre più performanti: questa è la forma di umano che ora sperimentiamo.
Ma “l’eccessivo aumento delle prestazioni porta all’infarto dell’anima” accompagnato dalle “malattie psichiche odierne come la depressione, il burnout o la sindrome da deficit di attenzione e iperattività”.
É il filosofo Byung-Chul Han ad analizzare lucidamente ciò che ci sta accadendo nel suo libro La società della stanchezza, dove ci fa notare, ad esempio che il multitasking è un regresso. “È infatti una tecnica dell’attenzione indispensabile per la sopravvivenza nell’habitat selvaggio, dove l’animale è abituato a suddividere la propria attenzione tra diverse attività. Così è incapace di qualsiasi immersione contemplativa”. Ma la specificità della nostra umanità si manifesta nelle più svariate attività culturali, che necessitano di una profonda attenzione contemplativa. Invece nella nostra società della prestazione “l’attenzione profonda viene progressivamente sostituita da una forma di attenzione ben diversa, l’iperattenzione, che non crea nulla di nuovo, ma riproduce ed accelera ciò che è già disponibile”.
Mentre la precedente società disciplinare era imperniata sul divieto, sul non-poter-fare, nella società della prestazione tutto ruota attorno ad un poter-fare illimitato. E così, inesorabilmente e senza rendercene conto, ci troviamo ingabbiati in una dinamica di autosfruttamento di noi stessi del tutto volontaria, senza le costrizioni esterne degli obblighi e dei divieti che caratterizzavano la precedente società disciplinare. L’ideale a cui tendere nella nostra società della prestazione è seduttivo e ci affascina, salvo poi ritrovarci vittime e carnefici al tempo stesso. Sovrani di noi stessi, continua Byung-Chul Han, non subiamo costrizioni esterne, ma viviamo in un clima di sbornia da libertà, senza accorgerci che “al posto della violenza causata da estranei subentra una violenza autogenerata, più fatale della prima, perché la vittima di questa violenza si crede libera”. Le istanze da prestazione, sempre più pressanti, fanno sì che diventiamo concorrenti di noi stessi, in una dinamica sempre più distruttiva che istiga a “doversi superare costantemente”. Logorati da questa lotta distruttiva con noi stessi, facilmente subiamo quel collasso psichico che è il burnout, “manifestazione patologica di questa libertà paradossale”. Perché è un’illusione credere che quanto più si è attivi tanto più si è liberi.
Il filosofo suggerisce tre compiti urgenti sui quali tornare a impegnarsi: si deve imparare a vedere, imparare a pensare e imparare a parlare e a scrivere, operazioni specificamente umane che allenano a “un’attenzione profonda e contemplativa, a uno sguardo lento e prolungato, prima istruzione alla spiritualità”. Posizione sintonica con quella di papa Francesco che, nella lettera al direttore del «Corriere della sera», scrive che“c’è grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso della complessità”. Altrimenti la nostra vita “equivale a quella di morti viventi. Troppo vivi per morire e troppo morti per vivere”.
*insegnante
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