Editoriali / Lodi
Giovedì 27 Luglio 2023
Le recenti proteste sulla giustizia in Israele segnalano problemi più grandi
Massimo Ramaioli
Il parlamento israeliano, la Knesset, ha appena approvato una controversa riforma. I legislatori israeliani possono ora invalidare, con maggioranza semplice, i giudizi e le disposizioni della corte suprema.
Tale misura, fortemente voluta dal primo ministro Netanyahu e dalla coalizione di estrema destra che ha vinto le elezioni lo scorso novembre, era stata congelata per alcuni mesi: tali e tante infatti erano state le proteste, in tutto il paese, che le riforma aveva scatenato. Proteste che si sono riaccese all’annuncio della decisione del governo di procedere con i suoi piani. Ma le decine di migliaia di dimostranti non sono riuscite a scongiurare quello che vedono come un attentato al carattere democratico di Israele.
Questi eventi rivelano in realtà un dilemma cruciale per quanto concerne la natura stessa dello stato ebraico. Problemi che trovano ora espressione nello scontro tra visioni diverse su cosa sia Israele.
I manifestanti ritengono che la possibilità per la Knesset di ignorare i dettami della corte suprema violi un fondamentale principio della divisione dei poteri di ogni ordinamento liberale e democratico: il parlamento fa leggi; il potere esecutivo le applica; quello giudiziario le valuta. Ma ora, il potere della corte diventa semplicemente di consultazione: un parere che può essere ignorato se il parlamento decide in quel senso. La compagine al governo insiste invece che il parlamento, in quanto espressione diretta del voto popolare, esercita un suo diritto e dovere nel rifiutare disposizioni della corte ad esso non gradite. Teoria fantasiosa, a meno che la democrazia non si riduca - in modo sedicente - nell’assecondare il volere popolare come espresso dalle ultime elezioni.
Teoria appunto contestata da molti israeliani, che si sono riversati nelle strade di Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa e Ber Sheba sventolando non bandiere partitiche, ma quelle nazionali, in un mare biancoblu. Per loro, il carattere di Israele come stato democratico è in pericolo: temono una svolta autoritaria. Sono israeliani perlopiù laici, della classe media o medio-alta. Ad essi si sono uniti associazioni professionali, sindacati e - fattore importantissimo - vasti settori delle forze armate, storicamente garanzia dell’esistenza stessa di Israele. La svolta autoritaria che questi temono viene associata all’affermarsi del sionismo religioso e ultranazionalista di formazioni come Noam o Sionismo Religioso. Queste si sono unite al sionismo laico - pure di destra - del Likud di Netanyahu. I partiti del sionismo religioso hanno tratti di destra populista, illiberale, financo xenofoba. Essi insistono sul carattere ebraico, prima che democratico, di Israele. In questo senso, sono in sintonia con la terza forze dell’attuale governo, gli ebrei ultraortodossi dello Shas: sebbene anti-sionisti, sono anch’essi ultra-religiosi, e pure di marcate tendenze illiberali.
Il conflitto tra due visioni di Israele - stato democratico per gli ebrei contro stato ebraico - evidenzia poi, in virtù della sua assenza, la vera questione di fondo: ovvero il rapporto con i palestinesi. Parte di essi sono cittadini israeliani: oltre il 20 per cento della popolazione. Ma non hanno partecipato alle manifestazioni, né tanto meno si potevano schierare con un governo dai forti tratti anti-arabi quando non apertamente razzisti. Per i cosiddetti “arabi israeliani” le due visioni di cui sopra non contemplano una piena cittadinanza, fintantoché Israele manterrà il carattere sionista - in qualsivoglia declinazione - come suo tratto costitutivo. E poi vi è la questione dei palestinesi dei territori di Cisgiordania, sotto regime di occupazione militare dal 1967 (per non parlare della caso di Gaza). La coesistenza tra i due milioni e mezzo di palestinesi e gli oltre mezzo milione di coloni ebrei (che fanno riferimento proprio ai partiti del sionismo religioso) conosce sistematiche e ricorrenti crisi: attacchi reciproci di una comunità verso l’altra, quindi intervento dell’esercito israeliano, arresti, ulteriore recrudescenza della resistenza palestinese.
La riforma ha quindi accesso un confronto a prima vista tutto interno alla variegata comunità ebraica d’Israele; ma esso verte in realtà sulla natura stesso dello stato, natura che non può essere definita senza prendere in considerazione lo status dei palestinesi (con o senza passaporto israeliano) all’interno di esso. Israele non è mai riuscito a darsi una costituzione. Ci sono leggi fondamentali, cui la corte suprema si appella nell’emettere le sue sentenze, e alcuni principi fondanti. Quello democratico è uno di essi. Quello ebraico un altro. Cosa significhino effettivamente è la posta in gioco in questi mesi drammatici. Alcuni commentatori israeliani hanno addirittura paventato la possibilità di una guerra civile. Possibilità alquanto remota. Ma non più un tabù.
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