Stefania, a Manchester come a casa

La 28enne di Casaletto non ha subito discriminazioni per la sua origine lodigiana

Il giardino della sua casa di Manchester affaccia sul vociferare continuo di una scuola elementare. Da quando è arrivata qui - poco meno di un anno fa - voci, schiamazzi e cantilene hanno fatto da orologio alle sue giornate. Con la pandemia è calato il silenzio: la chiusura dell’istituto si è fatta immagine iconica di una quotidianità congelata dall’emergenza.

Stefania Cassarino, da Casaletto Lodigiano al nord dell’Inghilterra - dopo tre anni trascorsi a Melbourne, in Australia - è la protagonista della quarta puntata di “Voci oltre confine”. 28 anni e un nuovo lavoro come Paid Media Executive, l’ambito Marketing di una multinazionale, a fine febbraio la giovane era appena tornata in UK, dove la prepotenza del Covid-19 veniva minimizzata. Mentre l’emergenza invadeva il nord Italia, oltremanica non si erano ancora registrati morti, negli aeroporti si circolava liberamente e - in barba alla distanza interpersonale - il premier Boris Johnson, rivendicava: “Continuerò a stringere le mani”. Dall’immunità di gregge al lockdown, questa è l’esperienza britannica di Stefania, il racconto di un paese che - nonostante la Brexit, prima, e la pandemia, poi - “L’ha sempre fatta sentire a casa”.

Come sei stata accolta dal tuo paese “adottivo”?

«Mi sono sentita accolta fin da subito, probabilmente il fatto che avessi vissuto già tre anni in Australia ha un po’ attutito lo shock culturale e linguistico. Il Regno Unito è un paese molto multiculturale e nonostante la Brexit (l’uscita dall’Unione europea, ndr) non mi sono mai sentita esclusa o non accolta. Mi sento a casa, anche se lontana dalla mia famiglia e dagli amici di sempre».

Giusto il tempo di adattarsi alla nuova realtà, è arrivato il lockdown. Come viene percepita lì l’emergenza?

«L’emergenza qui è percepita in modo molto più contenuto rispetto all’Italia. Un esempio? Mentre l’Italia era già in lockdown nazionale, gli aeroporti qui funzionavano normalmente, senza controlli o domande. Già lì mi sono resa conto che la situazione qui sarebbe diventata ancora peggio. Oggi, credo che il fatto che i numeri si siano alzati così tanto e il fatto che il Primo ministro inglese (Boris Johnson, ndr) in persona abbia dovuto affrontare sulla propria pelle gli effetti del Covid-19 abbia portato un po’ di consapevolezza maggiore. Qui non si voleva chiudere e hanno aspettato fino all’ultimo; siamo ancora in lockdown e probabilmente passerà ancora qualche settimana prima di intravedere un briciolo di normalità».

Immagino la preoccupazione, avendo osservato direttamente cosa stava succedendo qui…

«All’inizio la cosa mi preoccupava moltissimo. Quando è esplosa l’emergenza di Codogno, lo scorso febbraio, io ero appena tornata dall’Italia. Non solo qui in UK non veniva fatto alcun controllo, ma anche quando ho avvisato al lavoro che io ero appena tornata dalle zone messe in quarantena in Italia, i capi mi hanno guardato e con un sorriso di chi vuole ridimensionare il problema e mi hanno semplicemente detto “Tranquilla, anche se hai il Coronavirus ormai sono già diversi giorni che vieni in ufficio”».

Quindi il fatto di essere appena tornata dall’Italia non ti ha causato restrizioni?

«No, e una cosa ci tengo a sottolinearla: mi sono sentita accolta anche da italiana appena rientrata dalla propria città di origine in piena emergenza Covid-19. Nessuno mi è stato lontano “perché appena rientrata dall’Italia o perché italiana e porta il coronavirus”. Mai. Su questo non mi sento proprio di dire che ho vissuto alcuna discriminazione, anzi, si sono sempre assicurati di chiedermi come stesse la mia famiglia e come andassero le cose a casa».

Quali misure sono state adottate per limitare il contagio?

«Le misure adottate agli inizi sono state quelle di raccomandare la quarantena volontaria di 7 giorni (sì, solo 7!) a tutti coloro che provenivano dalle zone rosse colpite dall’emergenza: Cina, Taiwan, diversi Paesi dell’Asia e le prime zone rosse italiane. Il Regno Unito è entrato in lockdown ufficiale circa un mese dopo l’Italia, il 23 marzo 2020. Alcune aziende, tra cui quella in cui lavoro, hanno avviato il lavoro da remoto già dal 16 marzo. Con il lockdown sono arrivate le chiusure di negozi, bar, ristoranti e attività aperte al pubblico, ad eccezione dei rivenditori alimentari, farmacie e le cosiddette categorie di beni di prima necessità. Le passeggiate erano concesse, così come l’attività fisica all’aperto, per un massimo di una volta al giorno. Sono inoltre state implementate misure di distanziamento sociale e sono stati limitati gli spostamenti ad esigenze lavorative e di salute».

E i dispositivi di protezione individuali?

«Le mascherine sono state sconsigliate dal Governo, quindi difficilmente le vedi usare dalle persone. Nemmeno I lavoratori a rischio come i commessi del supermercato indossano nulla, né mascherine, né guanti, o per lo meno questa è stata la mia esperienza. Vedendo e leggendo le notizie italiane, mi fa sempre un po’ effetto notare quanto qui siano rare. Solo qualche giorno fa il primo ministro ha consigliato di indossarle sui mezzi pubblici».

Il virus ti ha causato limitazioni a livello lavorativo?

«Il giorno in cui ho iniziato presso l’azienda per cui lavoro, si è cominciato a lavorare da casa. Sicuramente cominciare presso una nuova azienda lavorando da casa, non conoscendo nessuno dei tuoi colleghi e ritrovarsi a fronteggiare le conseguenze economiche sul settore retail - nel quale lavoro - non è stato semplice. Ma a differenza di molti connazionali e non che hanno perso il lavoro e sono a casa da mesi, so di essere stata fortunata. In ogni caso qui il governo ha istituito il Furlough scheme, ovvero una manovra economica rivolta alle aziende per coprire l’80% dello stipendio dei dipendenti, così da disincentivare i licenziamenti. Ha funzionato, I pagamenti sono stati fin da subito puntuali e questo ha permesso a molti di vivere la pandemia senza lo stress e la preoccupazione economica dovuti al fermo delle attività».

Come trascorri le tue giornate ancora “congelate” dall’emergenza?

«Io ho avuto la fortuna di essere tra le persone che hanno mantenuto il lavoro e continuano a lavorare da casa, quindi, almeno dal lunedì al venerdì mi tengo occupata. Esco solo per fare la spesa, perché qui hanno limitato la spesa online a coloro che sono più vulnerabili o malati. Mi concedo una passeggiata intorno al quartiere dopo il lavoro, per staccare e respirare un po’, ma vivo in una zona residenziale quindi molto tranquilla, quasi nessuno in giro. Per il resto direi molti puzzle e Netflix!».

Hai mai pensato di fare ritorno in Italia?

«No, fortunatamente, perché non ne ho sentito l’esigenza. Vivo qui, lavoro qui, e tornare in Italia mi sembrava un rischio non solo per me ma anche e soprattutto per la mia famiglia. Capisco, però, tanti miei connazionali che sono voluti rientrare. Sia per le difficoltà economiche di chi si è ritrovato senza lavoro e non poteva permettersi di rimanere qui, sia per coloro che si sono ritrovati bloccati perché magari in viaggio o per motivi di studio. Non mi sento di giudicarli»

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