Un gesto che può salvare la vita di una giovane donna ammalata di leucemia. È quello compiuto da Caterina, la 27enne di Lodi che ha donato il suo midollo. In gergo medico si dice “cellule staminali emopoietiche da sangue periferico”. «È un prelievo di sangue che dura 4 ore. Dopo sei un po’ stanca, ma nel pomeriggio torni normale». Lo descrive così Caterina. Quello che c’è prima però sono gioia e lacrime di emozione. «Tutto è partito dalla mamma della mia migliore amica che si è ammalata di leucemia e aveva bisogno di un trapianto - racconta -. La mia amica mi telefonava di notte, era disperata. La prima cosa che mi è venuto da dire d’istinto, è stata: “Vado all’Admo”. Avevo già messo in conto che ci sono persone che non vengono mai chiamate. Nel frattempo, la signora aveva scoperto che sua sorella era compatibile con lei e stava meglio. Io avevo accantonato il pensiero. Quest’estate ero in Calabria, è squillato il telefono. Ha risposto il mio fidanzato e ha messo in viva voce: “Buongiorno, lei ha una prima compatibilità con una paziente”. Il mio cuore si è bloccato. Mi aspettavo tutto, tranne la chiamata Admo. “È ancora disponibile?” “Sì, ma sono a 1300 chilometri di distanza”. “Non si preoccupi la chiamiamo quando torna. Non ho potuto aspettare. Appena arrivata a Lodi ho chiamato io: “La stavamo contattando”. Ho fatto il primo prelievo, poi il secondo e sono arrivata allo step finale. È come se ci fosse qualcuno in qualche parte del mondo che vorrebbe che fossi proprio tu a salvargli la vita e quando mi hanno chiamata per dirmi: “È tutto a posto, venga”, ho agganciato il telefono e ho pianto per mezz’ora senza fermarmi. Avevo le lezioni di pattinaggio che finivano alle 23. “Non si preoccupi - mi ha detto la dottoressa di Pavia - io sono di guardia questa notte”. A mezzanotte ero da lei. “Se sei d’accordo, domani mattina facciamo gli esami. Pensaci”. Sono andata a casa con il magone. Avevo paura, ero spaventata. Alla mattina però, quando mi sono svegliata, i timori erano svaniti». A Pavia l’hanno sottoposta a tutti gli esami possibili: «Hanno guardato persino se avevo dei linfonodi - racconta -, passavo davanti a tutti: “Questa è la donatrice”, si giustificavano i medici. I malati di tumore in sala di attesa mi guardavano e una mi ha detto: “Grazie per quello che fai, a nome di tutti noi”».
Per quattro giorni le hanno somministrato i fattori di crescita: «Avevo la paranoia di ammalarmi - spiega -. Venivano i nipotini a casa e io scappavo in camera. Poi non l’avevo ancora detto ai miei genitori. “Mamma, ti ricordi quando stava male la signora? Ecco, vedi, mi sono iscritta all’Admo e sono compatibile, devo andare a donare”. Senza neanche una pausa. “Però non mi devo ammalare. Quindi da domani non mangio più con voi, ma in camera. Adesso vado a letto, buona notte”». Neanche il tempo al genitore per dire: “Mah, sei sicura? Non ti fa male?”. Troppo tardi. In ottobre Caterina era là, a Pavia. Attaccata alla macchina per la raccolta delle cellule staminali. «Nella stanza di fianco c’erano altre persone: facevano la mia stessa cosa, solo che erano malate. Si stavano sottoponendo all’autotrapianto. So che la giovane donna ha ricevuto le mie cellule, ma non so ancora come sta». Ora le scriverà una lettera, ma a recapitargliela deve essere l’ospedale. La legge vuole che solo dopo tre anni donatrice e ammalata possano conoscersi. La testimonianza di Caterina però, nel frattempo, sta facendo il giro delle scuole. Perché in tutto il Lodigiano siano sempre di più le storie come la sua.
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