Un ricordo, tre episodi per raccontare la personalità di don Carlo Ferrari

La lettera dell’ex direttore del Cittadino Ferruccio Pallavera

Caro direttore,

nel contesto dell’evento luttuoso che ha scosso la diocesi di Lodi con la morte di don Carlo Ferrari, consentimi di ricordare tre episodi originalissimi che hanno scandito la sua vita, in relazione ad altrettante figure di vescovi.

Il primo
L’11 giugno 1952 morì il vescovo di Lodi Pietro Calchi Novati. Anziano e ammalato, aveva ottenuto di poter avere al proprio fianco un ausiliare, che scelse di persona tra il clero lodigiano: Luigi Carlo Borromeo, che era cancelliere vescovile e pro vicario generale. Questi rimase vescovo ausiliare di Lodi per soli cinque mesi, perché di lì a poco Calchi Novati morì. Venne nominato come nuovo vescovo Tarcisio Vincenzo Benedetti, e Borromeo promosso alla prestigiosa sede di Pesaro. Come tale e prima del suo ingresso iniziò a ricevere a Lodi alcune delegazioni del clero pesarese, ciascuna delle quali gli presentò una differente descrizione della diocesi a cui era stato destinato. Tutti però concordavano su una cosa sola: avrebbe dovuto scegliersi come segretario uno che non fosse di Pesaro. A quel punto Borromeo - che aveva un’intelligenza acuta e un carattere tutt’altro che facile - decise di portarsi il segretario da Lodi. Lo individuò in Carlo Ferrari, un giovane che aveva il timbro, il carattere e le capacità di stargli al fianco. Ma Carlo Ferrari era ancora un seminarista.

Ne parlò al direttore del seminario, che si oppose con un secco diniego: il giovane doveva ultimare gli studi e pertanto non poteva fargli da segretario. Borromeo gli rispose furente che a reggere provvisoriamente la diocesi di Lodi c’era lui, e spettava a lui decidere chi avrebbe dovuto essere consacrato prete e chi no. Pertanto diede disposizioni affinché Carlo Ferrari venisse ordinato al più presto. Il che avvenne. Lo spedì subito a Pesaro, perché gli preparasse l’episcopio e l’ingresso in diocesi. Gli mise in tasca una somma per pagarsi il viaggio in treno e per le prime spese urgenti. Don Carlo, che aveva solo 23 anni, con quei soldi si comprò una motocicletta scassata, a bordo della quale raggiunse Pesaro, attraversando tutte le città dell’Emilia e della Romagna, perché l’autostrada non esisteva ancora. Arrivò in una Pesaro imbandierata a lutto per la morte del dittatore dell’Unione Sovietica, e qualcuno nella notte aveva avuto l’ardire di coprire il palazzo vescovile con decine di manifesti sui quali spiccavano l’immagine del defunto e la scritta a carattere cubitali “Lunga vita al compagno Stalin”. Non si perse d’animo, soprattutto quando dal palazzo uscì come una furia una suora che sembrava un monumento, che lo trapassò con lo sguardo. Reggeva due secchi d’acqua e due spazzoloni. Lui si presentò timidamente e quella gli rispose: “Adesso non ho tempo di ascoltarti, ne parliamo dopo. Vediamo cosa sei capace di fare. Tu togli i manifesti da quel lato, io li stacco da qui”. Don Carlo ricordava che il suo primo impegno a Pesaro fu quello di aver lavorato con uno spazzolone per staccare i manifesti di Stalin. La suora era Flora Pallotta, una religiosa tutta d’un pezzo che non aveva paura neppure del demonio e che, grazie anche a Borromeo, avrebbe fondato una congregazione religiosa che ha la casa madre a Pesaro, e sedi in Ecuador e in Perù.

Don Carlo restò due anni al fianco di Borromeo, in un rapporto non facile soprattutto con le sorelle del presule. Ricordava con trasporto le serate trascorse con il vescovo nelle bettole del porto, ambedue con indosso abiti malconci: Borromeo, non riconosciuto, parlando anche con i pescatori e le donne di malaffare voleva avere il polso della diocesi. Rammentava le presenze nella visita pastorale, dove al presule la gente consegnava doni tra i più disparati, anche agnellini vivi e belanti. E quando finalmente il vescovo di Pesaro trovò un segretario del posto, don Carlo fu inviato dal vescovo di Lodi a laurearsi a Roma, al Seminario Lombardo, dove ebbe come compagni di studi alcuni giovani che avrebbero fatto strada nella vita, come il futuro cardinale Giovanni Battista Re o i futuri vescovi Paolo Magnani e Giacomo Capuzzi.

Il secondo episodio
La famiglia di don Carlo risiedeva a Lodi, in due stanzette che fungevano da portineria del palazzo vescovile. Per questo ricordava i mille particolari del grande cantiere avviato da monsignor Benedetti per il restauro della cattedrale. I lavori riportarono quel “chiesone di campagna” dalle fattezze settecentesche allo stile romanico. La cifra necessaria fu stratosferica, altamente superiore alle forze della diocesi. Benedetti vi fece fronte con i generosi finanziamenti ricevuti da alcune ricche famiglie ebree che aveva salvato dallo sterminio nazista e nascosto nelle catacombe quando era parroco a Roma. Un giorno il geometra Achilli di Lodi, che provvedeva a pagare le maestranze che lavoravano alla cattedrale, comunicò al vescovo che i soldi per far fronte al cantiere erano terminati. Il vescovo contattò subito uno degli ebrei che gli fornivano aiuti copiosi e si sentì rispondere che non aveva denaro a disposizione nelle banche italiane, ma poteva fornirgli una somma ingente, depositata in un istituto di Lugano. Era necessario però recarsi di persona a ritirarla. Si trattava di un’operazione rischiosa, perché importare illegalmente in Italia somme ingenti, per giunta franchi svizzeri e in contati, costituiva un reato.

Il vescovo incontrò nel cortile del palazzo episcopale don Carlo. Gli chiese se possedeva ancora quella sua vecchia automobile. Alla risposta affermativa, gli ingiunse di prepararsi per l’indomani, alle sei del mattino, vestito da laico: avrebbe dovuto accompagnare il vescovo a Lugano. Don Carlo rispose che la sua vettura era un catorcio indegno per un presule, e che sarebbe stato meglio utilizzare l’auto di rappresentanza. Ma Benedetti fu irremovibile. E così l’indomani caricò in auto monsignor Benedetti, che indossava un abito da semplice frate carmelitano, senza insegne vescovili. A Lugano parcheggiarono sul lungolago, davanti alla banca indicata. Venti minuti dopo Benedetti uscì con un pacco avvolto in carta di giornale. “Qui dentro - annunciò sottovoce a don Carlo - ci sono trenta milioni di franchi svizzeri in contanti. E adesso dove li nascondiamo?”. “Mettiamoli nel baule – rispose il giovane sacerdote – li avvolgiamo in un plaid che ho lì dentro”.

Ripartirono per Lodi. Ma giunti alla frontiera notarono che le operazioni di controllo da parte della polizia elvetica erano molto meticolose. Tutte le auto venivano perquisite, i bauli aperti con l’ispezione di ciò che contenevano. Si misero in fila. “Guarda quel finanziere là che si occupa del varco di sinistra – disse il vescovo, diventato molto nervoso e preoccupato – che volto grintoso. Sicuramente è un luterano. Se finissimo sotto le sue grinfie chissà cosa ci succederebbe. Ma il Signore non lo permetterà, perché la nostra è un’opera voluta da Dio”. Dopo alcuni interminabili minuti la vettura dei due lodigiani finì proprio davanti al “luterano”. Il quale, guardando quel frate carmelitano, prima di procedere alla perquisizione domandò secco in un italiano stentato se non avessero nulla da dichiarare. “Guardi – rispose don Carlo, calmo e sorridente – nel baule avvolti in un plaid abbiamo nascosto trenta milioni in franchi svizzeri!”. Il finanziere elvetico lo guardò irritato. “Lei prenda in giro suo sorella!” gli disse con un gesto di stizza. E dopo aver guardato negli occhi monsignor Benedetti aggiunse: “Vada!”. Prima di arrivare alla frontiera di Chiasso il vescovo si tolse di tasca lo zucchetto rosso e la croce pettorale, e benedicendo i finanzieri italiani mentre questi scattavano sull’attenti, fece in modo che l’automobile transitasse senza essere fermata. Subito dopo monsignor Benedetti aggredì urlando don Carlo: “Ma sei pazzo? Ma ti rendi conto il rischio che ci hai fatto correre? Cosa ti è venuto in mente di dichiarare che avevamo nel baule trenta milioni in franchi svizzeri?”. E lui, sorridendo: “Eccellenza, ci avrebbero perquisiti e avrebbero trovato la somma nel baule, e sarebbe scoppiato uno scandalo. Domani mattina saremmo stati sulle prime pagine di tutti i quotidiani della Svizzera! Ho preferito raccontare qualcosa di inimmaginabile. E ho detto la verità!”. “Sei incorreggibile e stavi facendomi venire un nuovo infarto – aggiunse sorridendo monsignor Benedetti – ma ce l’abbiamo fatta. Vedi che il Signore ci ha aiutati?”.

Il terzo e l’ultimo episodio
Si raccontava che un alto prelato, catapultato in una qualificata stanza dei bottoni in Vaticano, si fosse messo in testa che tutti coloro che avevano frequentato il Seminario Lombardo in quei fatidici anni nei quali a Roma c’era anche don Carlo Ferrari, dovevano essere promossi vescovi. Il che era quasi avvenuto. L’ultimo a non avere ancora ricevuto la croce pettorale era proprio il sacerdote lodigiano. Il quale non voleva assolutamente saperne. Venne contattato una prima volta, per una diocesi prestigiosa, ma lui rispose accampando una scusa. Qualche anno dopo, recandomi a Sant’Angelo Lodigiano per un’intervista, notai fuori dalla casa parrocchiale un’auto blu targata Torino, con l’autista in attesa. Proprio in quel momento dalla canonica uscirono don Carlo e un alto prelato. Quest’ultimo si era recato di persona per comunicargli che erano intenzionati a nominarlo vescovo di una grande diocesi del Piemonte. “Non puoi rispondere sempre di no – gli disse l’eminente personaggio – pensaci!”. E don Carlo, con un sorriso: “Te l’ho già detto. Guidare i preti è la cosa più difficile che ci sia. E poi sto bene a Sant’Angelo”. Si salutarono con una stretta di mano.

Ferruccio Pallavera
Cavenago d’Adda

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