Qual è il compimento della vita per un individuo? In che misura il carattere e il destino determinano le sorti della singola persona? L’italo-americano Salvatore Scibona, considerato dal «New Yorker» tra i venti migliori scrittori americani under 40, esordisce con un affresco romanzesco a più voci sulla contraddittorietà dell’identità statunitense, d’una fisionomia umana per costituzione lacerata tra le anime dell’Europa, tra il fato dei maestri greci e il protestantesimo e il culto della dimensione privata dei primi colonizzatori inglesi. Il panettiere Rocco La Grassa, l’anziana Costanza Marini, il giovane Francesco Mazzone, un misterioso gioielliere senza nome, sono figure d’una rappresentazione che ha luogo a Cleveland, Ohio, attanagliate dalla nauseabonda calura del giorno di ferragosto, durante la processione dell’Assunta, nel quartiere a forte componente d’immigrati di Elephant Park, nel 1953. Adoperando continui flashback, che gli consentono di lambire anche l’altra radice della schizofrenia americana - la guerra di secessione (1861-1865) - Scibona attraversa il crepaccio del tempo in cui sono precipitati i suoi personaggi, tutti in attesa di un completamento, di un fine che dia un senso ai loro movimenti, e che si rivelerà fuori fuoco, incatturabile dall’esperienza del singolo. Sullo sfondo della speculazione aristotelica sul senso del divenire e delle riflessioni platoniche sulla realtà dell’ideale, il fine dell’esistenza dei protagonisti è in sintonia con l’ancora più antica sapienza di Epicuro, che ne sigilla l’enigmaticità, la fine insondabile: «La morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi».
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