Gli anni di piombo, con la loro folle ideologia che faceva velo ai rapporti umani, paiono essere sepolti negli anni ’70, benché i rigurgiti di una violenza pseudo-politica arrivino a lambire, in maniera non meno dolorosa, anche i nostri giorni. Fabio Calenda, già dirigente aziendale e collaboratore per l’economia di «Repubblica» - qui al suo secondo romanzo - percorre lucidamente la parabola di un’intera epoca, seguendo le vicende della pariolina Patrizia: gli ideali del ’68 rivivono con qualche forzatura nelle lotte per il diritto alla casa che esplodono all’esordio del nuovo decennio, per perdersi via via in una spirale sempre più cieca di odio, fino a giungere al punto di non ritorno del 1978. E dopo? Calenda non omette di raccontare il destino di chi si è spinto fino all’istante che uccide, descrivendo la trasformazione operata dalla detenzione e il senso di colpa che non può essere cancellato. Quel che emerge dal romanzo estremamente compatto e coerente di Calenda - coerente come quegli anni non seppero essere - è che il dramma vissuto dal Paese fu nelle sue fondamenta un dramma famigliare. Il dramma degli affetti spezzati delle vittime, innanzitutto, ma anche quello di padri teneri e madri di ghiaccio che non seppero contenere il furore dei loro figli, sedotti da utopie cattive: «una guerra immaginaria, frutto di fantasie allucinate, esibizionismo, complicità diffusa nei piani alti del potere (...). Di concreto sono rimaste soltanto le vittime innocenti».
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