I sogni e la realtà: da Quito all’Italia cercando fortuna

Lachemere e Sancha sono due pachidermi che una possente gru ingabbia e trasferisce dal loro circo itinerante, accampato in una cittadina dell’Adriatico, a un anonimo zoo romano. Un trasloco per problemi di carte bollate: mancano infatti i timbri che certificano i passaggi tra l’India e l’Italia. Pertanto, fino a prova contraria, i due colossi non possono più “circolare” nel Belpaese. E sarà perché si sente un po’ come loro che Nevio, 28enne immigrato dall’Ecuador col permesso di soggiorno ormai scaduto e una serie infinita di tentativi falliti per rinnovarlo, ritaglia e conserva con cura tutti gli articoli di giornale che narrano le vicissitudini dei due animali. Come quegli elefanti indiani, mansueti ma pronti all’ira, Nevio si sente in gabbia e sa che anche per lui il rischio di finire dove non vorrebbe (uno dei famigerati Centri di accoglienza se non i 4 metri quadrati di una cella) è dietro l’angolo ora che ha accettato di fare il corriere per un’oscura organizzazione di trafficanti d’auto, portando una grossa valigia fino a Milano a bordo di una lussuosa Mercedes in cambio di una ricca prebenda. Una decisione assunta per sfinimento, le mani verso l’alto in segno di resa contro i troppi ostacoli incontrati - nell’Italia dei primi anni 2000 - nella corsa a trovare regolarmente un’occupazione e un alloggio per dare una mano a casa (dove ha lasciato il padre e due fratelli minori) e costruire un futuro per sé.Nevio si chiama in realtà Juan José Nevarez, ha una laure

a e un buon lavoro alle spalle, inghiottiti dal crack ecuadoriano del 1998/99, che ha bruciato soldi, speranze, vite. La fuga in Italia, dove già vive da qualche anno la madre sbarcando il lunario come colf e badante, finisce contro gli scogli di una burocrazia disumana e bizantina e regala solo amarezze al giovane ecuadoriano, il quale deve fare i conti anche con i cambiamenti che la distanza e la fine del rapporto coniugale hanno indotto nella donna, ormai soggiogata dal nuovo compagno, lui pure immigrato, duro e violento. Una realtà che finirà per stritolarlo e cambiarlo dentro, un passo alla volta, fino a snaturarlo, avviluppandolo in un vortice senza apparente fine.Contando su un solido impianto narrativo, realizzato sovrapponendo diversi piani spazio-temporali, e sorretto da una scrittura matura, raffinata e precisa, pulita e ricca (specie nelle parti descrittive), Vincenzo Maria Oreggia ci regala con questo romanzo una prova convincente e di grande spessore come poche ne escono sul nostro mercato editoriale anche da parte di editori ben più blasonati del piccolo torchio abruzzese cui si è affidato. Collaboratore di questa rubrica, 47 anni, milanese trapiantato da un paio di lustri nelle Marche ma di fatto apolide (vive per metà dell’anno in Senegal, dove segue le attività dell’azienda di famiglia), Oreggia confeziona un libro che affronta senza infingimenti e con grande onestà il tema sempre attuale dell’immigrazione. Lo fa evitando accuratamente il rischio di cadere nella retorica o in certe facili indagini sociologiche, ma soffermandosi piuttosto sulla dimensione umana, personale ma anche collettiva (di un popolo, di una nazione, di un’etnia) di un fenomeno vecchio come il mondo eppure sempre nuovo nei contorni che assume e nei drammi che si porta con sé.

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Vincenzo Maria Oreggia, Questa non è la mia patria, Gallad Edizioni, Giulianova 2013, pp. 203, 13 euro

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