Un tuffo nel male più cupo, tanto oscuro da soffocare anche i pochi spiragli di luce di chi, con coraggio, decide di opporsi al cancro dell’illegalità. Ed è davvero estesa la “metastasi” della ‘ndrangheta raccontata in C’era una volta la Lombardia da Fabio Abati, giornalista e scrittore lodigiano, tornato ad addentrarsi nelle vicissitudini delle cosche al Settentrione dopo l’eccellente debutto di Polo Nord, la nuova terra dei padrini del sud, scritto assieme a Igor Greganti. La formula è analoga, quella dell’inchiesta-romanzata, seppur con riferimenti a personaggi e fatti realmente esistiti molto più “sfumati” rispetto a quelli del precedente libro, dove anche il Lodigiano l’aveva fatta (suo malgrado) da protagonista. Ma il “pugno nello stomaco” del lettore è, se possibile, ancora più doloroso. Sullo sfondo di una vera e propria “crisi interna” al cartello delle ‘ndrine al nord, tra lotte per gli appalti, campagne elettorali inquinate, corruzione, alleanze labili e tradimenti improvvisi è l’intero tessuto sociale, economico e politico lombardo a finire travolto dal potere della ‘ndrangheta: talvolta come vittima, talvolta come complice. Ribellarsi? Possibile, anzi, doveroso, come provano a fare magistrati, imprenditori e cittadini onesti: anche quando il prezzo da pagare, purtroppo, è troppo alto. Uno spaccato spietato e decadente, nel quale tra malavitosi, manager privi di scrupoli e uomini delle istituzioni collusi nessuno sembra vincere, anzi: tutti sembrano perdere. Dando l’ennesimo colpo all’illusione di una regione immune dai tentacoli della più feroce delle “piovre”.
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