Il lungo addio di Foster Wallace

David Foster Wallace, l’autore di Infinite Jest morto suicida a 46 anni, nel 2008, si racconta in un viaggio “on the road“ con il giornalista di «Rolling Stone» David Lipsky. Dal materiale registrato da Lipsky in quei cinque giorni trascorsi insieme allo scrittore, nel 1996, all’indomani dell’uscita americana di Infinite Jest, pubblicato in Italia da Fandango Libri nel 2000, esce un raro ritratto in presa diretta di un maestro della letteratura di cui è in uscita in Italia, per Einaudi, il romanzo postumo e incompiuto Il re pallido. Reduce dal successo gigantesco del secondo romanzo Infinite Jest, quasi 1.500 pagine sulla nostra infelicità quotidiana raccontata con ironia, Foster Wallace «mi dirà - racconta Lipsky - che vorrebbe scrivere un profilo dei giornalisti che stanno venendo in massa a scrivere profili su di lui. “Sarebbe un modo per riprendere, almeno in parte, il controllo” dirà».

In quei cinque giorni, viaggiando per centinaia di chilometri, trascorrendo notti insonni, assistendo ai suoi reading, ai suoi corsi di scrittura, David parla con Lipsky di letteratura, cinema, politica, musica e anche della sua vita privata e della lotta contro la depressione. «Io ho trent’anni, lui trentaquattro. Tutti e due portiamo i capelli lunghi. Ho appena posato il registratore sopra le sue riviste» spiega il giornalista e il libro ha proprio il ritmo di questa lunga conversazione fiume, di un dialogo in forma di intervista che non ha nulla di formale, che sembra un racconto alla ricerca di come, appunto, diventare se stessi.Così di Infinite Jest, Wallace spiega che «è diviso in spezzoni, ci sono immagini o frasi conclusive abbastanza evidenti che dicono in maniera piuttosto chiara che a quel punto devi andarti a fumare un sigaro, o qualcosa del genere, e ritornare a leggere dopo un po’». E ancora: «Non ho mai pensato a questo libro come un romanzo, lo vedo come una lunga storia». Il titolo originario, spiega l’autore, era «“Intrattenimento fallito”. L’idea è che il libro sia strutturato come un prodotto di intrattenimento che non funziona». Lo scrittore passa in rassegna anche un po’ di registi e di film: Woody Allen «non mi è mai piaciuto molto» dice e come «esperienza cinematografica più intensa e più importante» della sua vita cita Velluto blu di David Lynch perché «mi ha fatto intuire - spiega - per la prima volta che essere un surrealista, o comunque uno scrittore bizzarro, non ti esentava affatto da certe responsabilità». Alto quasi un metro e novanta, con gli occhi scuri, la voce dolce e un’andatura molleggiata da ex atleta, Wallace amava arrivare alle estreme conseguenze sul piano della logica. Come quando parla dell’intrattenimento: «Saremmo talmente affascinati dall’intrattenimento da non voler più svolgere il lavoro che genera il reddito che serve a comprare i prodotti che pagano le pubblicità che permettono la diffusione dell’intrattenimento». Parlando di poesia e della narrativa «che si è dimenticata del lettore», Wallace mostra una grande inaspettata fiducia sul destino dell’arte che è «qualcosa di assolutamente magico» e sul fatto che «la roba bella sopravvivrà e verrà letta, e che nell’immenso processo di separazione del grano dal loglio, la merda andrà a fondo e la roba bella resterà a galla». Della sua generazione, a partire dal 1962, Wallace sostiene «che se la passa al tempo stesso meglio e peggio di qualunque altra. Per come la vedo io, ci toccherà inventare da zero gran parte della nostra etica, e tanti dei nostri valori», dice profeticamente a Lipsky che è anche narratore e che con un suo articolo su Wallace, pubblicato nel 2009 su Rolling Stone, ha vinto il National Magazine Award.

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D. LIPSKY (a cura di), Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, Minimum Fax, Roma 2011, pp. 442, 18,50 euro

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