Nella cittadina austriaca di Amstetten Joseph Fritzl ha tenuto segregata la figlia in un rifugio antiatomico sotto casa per ventiquattro anni, e da lei ha avuto sette figli, uno dei quali morto durante il parto. Da questo terribile fatto di cronaca, subito equiparato a uno dei crimini più odiosi che mai sia stato compiuto contro l’essere umano - se non al più odioso in assoluto - il ventinovenne Paolo Sortino ha tratto un romanzo, intitolandolo con il nome della vittima. Non è un’inchiesta dal valore documentale ma il tentativo di narrare un dolore indicibile, e con esso il legame distruttivo, irraccontabile, tra quel padre e quella figlia. Come eseguire un compito del genere? Sortino entra nella psicologia di Elisabeth non tanto indagando un’interiorità colpita al di là dell’immaginazione ma soffermandosi sull’impersonalità dello spazio della segregazione - il bunker - per mostrare come l’io della prigioniera sia stato costretto in «pareti mentali», ben presto indistinguibili da una forma di vita minerale, quella del cemento circostante. Regredita a cosa, a corpo inanimato, a meccanismo espropriato delle qualità umane, Elisabeth è sopravvissuta forse perché, suggerisce Sortino, a un certo punto ha rinunciato alla percezione dell’inaudito e dell’insopportabile, cancellando in se stessa l’avvertimento del baratro che la separava dal suo persecutore. Come scrisse Leo Löwenthal all’apertura dei campi di concentramento nazisti, il sistema del terrore consegue il dominio totale, proprio quando la vittima, per sopravvivere, accetta la lingua del carnefice. Se questo è stato il prezzo della sua sopravvivenza, ci auguriamo che Elisabeth sia ora felice.
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