Il volto aristocratico del comunismo

Aveva in mente un ritratto proustiano dell’aristocrazia della rivoluzione russa a pochi anni dalla morte di Lenin, se Curzio Malaparte (1898-1957), almeno in un certo periodo, voleva intitolare “Du Cote de chez Staline” questo romanzo rimasto incompiuto e uscito solo postumo col titolo Il ballo del Kremlino, che trova ora la sua versione definitiva grazie al lavoro filologico, ai commenti e ai collegamenti con il resto dell’opera dell’autore realizzato dalla curatrice, Raffaella Rodondi. Incontriamo quindi in carrozza per le strade di Mosca personaggi indimenticabili come Florinski, biondo, efebico re dei pettegoli, incipriato e con gli occhi truccati, vestito tutto di lino bianco e calze bianche di seta, come uscito da un romanzo o da un’altro mondo, capo protocollo agli Affari Esteri: per lui, annota Malaparte, «il marxismo era una sorta di

completamento della sua natura di pervertito». C’é poi Semenova, prima ballerina dell’Opera, che lo stesso Stalin osserva a teatro con occhio interessato, conoscendo tutti i pettegolezzi che su di lei si fanno in città, ma che ha un amante ufficiale, un alto funzionario russo che ha la mania della moda inglese, parla con accento oxfordiano, gioca a tennis e si fa arrivare da Londra cappelli, cravatte e vestiti. Il libro è, stando alle parole dell’autore stesso, il ritratto «di quell’aristocrazia comunista che aveva preso il posto dell’aristocrazia russa dell’antico regime e somigliava, per molti aspetti, a quella nobiltà rivoluzionaria sorta dalla Rivoluzione francese, che al tempo del Direttorio circondava Barras». Insomma, un romanzo che forse avrebbe dovuto andare a completare una trilogia assieme a La pelle e Kaputt sulla decadenza dell’Europa nel secolo dei totalitarismi, delle rivoluzioni e delle guerre sporche, uscito solo una volta nel 1971 nell’ultimo volume delle opere di Malaparte edite da Vallecchi e quindi dimenticato. Ora vengono proposti cinque capitoli brevi e un sesto di quasi 80 pagine, più lo scritto La vergogna della morte, che compongono circa metà del volume, mentre il resto è composta dalle appendici (frammenti e abbozzi del romanzo) più le articolate e attente cento pagine di nota al testo della curatrice. A contraltare dei fasti dell’elite del nuovo potere rivoluzionario, ecco invece la decadenza della vecchia, grande aristocrazia ridotta in miseria, che si vende le proprie povere cose rimaste in via dell’Arbat, come l’ultimo principe Lwow che vi porta con fatica una poltroncina dorata. Bello quindi l’incontro di Malaparte con l’ambasciatore polacco Patek, che parla della società zarista con nostalgia, come fossero cose vissute il giorno prima: «Ogni tanto si passava la larga mano sul cranio nudo e lucido con un gesto di una volgarità raffinata. Prova che, con quel gesto, scacciasse dalla scena i fatti e i personaggi e dalla mente, come un croupier che dal tappeto verde, con la lunga racchetta, raccoglie i luigi d’oro». Dalle belle pagine che pure restano, al di là di ripetizioni e varianti che non intralciano la lettura più di tanto, è difficile dire cosa sarebbe diventato il libro, quale ritratto della Russia e di quegli anni ne sarebbe davvero uscito, se già qui ci sono alcune avvisaglie di un futuro fosco: per esempio la sorella di Trotzsky vive «in agonia» da quando «le giacche di cuoio della Gepeu» hanno arrestato questi e suo marito. E poi c’e la bellissima immagine, assolutamente metaforica, del corpo imbalsamato di Lenin: di tanto in tanto specialisti tedeschi arrivavano per riparare «il guscio di quel prezioso crostaceo, quella sacra mummia cui un sudore verdastro, simile a una muffa, velava il bianco viso di porcellana, illuminato da lentiggini rosse», perché, «dopo alcuni mesi ch’egli giaceva nella sua bara di vetro, ci si accorse che si decomponeva, si sgretolava. Era friabile, e in alcuni punti morbida al tatto, umida, guasta».

CURZIO MALAPARTE, Il ballo al Kremlino Adelphi, pp. 418, 22 euro

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