Jimi Hendrix, vita in musica fino alla tomba

Stralci di interviste, frasi scritte su pacchetti di sigarette o tovaglioli, lettere e cartoline spedite a casa o ai fan, testi delle sue canzoni e discorsi on stage. Un collage, anche grafico, di quella che è stata la vita in parole di Jimi Hendrix. Zero - La mia storia, è una sorta di libro autobiografico post-mortem del musicista scomparso nel 1970, a soli 27 anni: l’età maledetta, quella che ha consegnato alcuni grandi della musica alla mitologia, fondatori inconsapevoli del Club 27, nel quale oltre a Hendrix sono entrati di diritto Jim Morrison, Brian Jones e Janis Joplin, morti tutti tra il 1969 e il 1971. E poi in tempo più recenti, tra gli altri, Kurt Cobain e Amy Winehouse.Zero diventa così, per mano del produttore cinematografico e musicale Alan Douglas e del documentarista Peter Neal, che insieme hanno selezionato e dato forma, cronologicamente, agli scritti di Hendrix che costituiscono questo libro, un’ultima occasione per illustrare la visione della vita e della musica del chitarrista dai vestiti eccentrici e dalla capigliatura indomita, che ha rivoluzionato la storia della musica, in mezzo a una pletora di leggende e mezze verità. Il libro - spiegano i curatori - «è opera di Jimi Hendrix a tutti gli effetti. È merito suo che amava parlare di sé con sensibilità, candore e ironia». Nessuna parola è stata aggiunta, nessun concetto modificato o aggiustato. È la sua storia, così come - forse - l’avrebbe potuta e voluta raccontare lui stesso, se avesse avuto il tempo di dare alle stampe una biografia. Un’infanzia passata tra Seattle, dove era nato, e la riserva indiana di Vancouver, dove viveva la nonna per metà Cherokee. Poi i mesi nell’esercito, più per sfuggire alla galera che per convinzione. Con un unico punto fermo: la musica. Una passione che si fa strada piano piano, per diventare presto il fulcro attorno alla quale ruota la vita di Hendrix. «Non me ne fregava di niente, solo della musica», spiegava lui, che detto addio allo zio Sam, senza soldi per tornare a casa, comincia a girare il Paese: prima il Sud, poi New York, Kansas City, Los Angeles, di nuovo New York, passando da una band all’altra, da un lavoro all’altro. Incontra Little Richards, Bob Dylan, Mick Jagger, Eric Clapton, i Beatles. La svolta avviene con il trasferimento in Europa, nel 1966. Una band con il suo nome (Jimi Hendrix Experience), le prime incisioni, i primi dischi, i concerti. È l’inizio della parabola artistica folgorante di Hendrix, durata appena quattro anni. Il racconto, tutto in prima persona, è un viaggio che esplora l’itinerario interiore del chitarrista che suonava con i denti e che si interrompe troppo presto. «Alla mia morte ci sarà una jam session, puoi giurarci. Voglio che tutti diano il massimo e si sballino. E conoscendomi, finirò per cacciarmi nei guai al mio stesso funerale. Non voglio canzoni dei Beatles, ma qualche pezzo di Eddie Cochram e parecchio blues. Roland Kirk verrà di certo, e farò di tutto perché non manchi Miles Davis. Per una cosa così varrebbe quasi la pena morire. Solo per il funerale. È strano il modo in cui la gente dimostra il proprio amore per chi muore. Devi morire prima che ti riconoscano qualcosa. Una volta morto, sei pronto per la vita. Quando non ci sarò più non smettete di metter su i miei dischi».

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Jimi Hendrix, Zero. La mia storia, Einaudi editore, Torino 2014, pp 260, 22 euro

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