«La giustizia è cosa divina, noi ci limitiamo a operare secondo norme umane e fallibili: viviamo fra le macerie (...): e con le macerie dobbiamo cavarcela». Così pensa il sobrio magistrato milanese Roberto Doni, una vita ormai agiata e vicina al traguardo della pensione, le giornate scandite dalla routine di una professione ligia alla procedure, le uniche capaci di acquietare il rovello del dubbio, il tormento della verità. Non a caso, pensa Doni, «per sopravvivere spogli ogni evento del suo significato: soltanto le cause interessano, solo la fisica del male e non l’etica». Tuttavia, quando la giovane e ostinata giornalista Elena invita il magistrato a guardare sotto un’altra luce l’ordinaria amministrazione del caso del tunisino Kahled - accusato d’una terribile violenza in viale Padova - in Doni si risveglia la memoria d’un antico patto stipulato con un giovane collega, ucciso anni prima dal brigatismo, quando la professione era ancora intrisa d’ideali. Nei giorni in cui il protagonista mette mano al proprio testamento - anzi, a quella che sta diventando una necessaria e definitiva «autobiografia morale» - quanto è ritenuto ovvio cessa d’essere tale, al punto da mettere in discussione gli stessi dati di cronaca: «I fatti sono un velo, i fatti vanno e vengono, e sotto c’è la vita delle persone». Solo di fronte a una legge d’ordine superiore - quella dettata dalla voce della coscienza, non certo dal fanatismo - il magistrato avvertirà la vertigine della libertà responsabile, il cui esito deliberativo non è mai garantito a priori.
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