La vita “inviata” di Indro Montanelli

Ecco il più sincero, anzi l’unico sincero augurio che mi sento di fare a voi giovani: non badare a distinguere tra battaglie vittoriose e battaglie perdute, ma fra Cause giuste e Cause ingiuste. Il modo per non sbagliare c’é: scegliete sempre, rinunciando agli autoinganni, la più difficile. Il premio? Nessuno, cioè uno solo: la pace con voi stessi». È una sorta di lascito ideale quello che Indro Montanelli, il 31 dicembre 1999, affida sul «Corriere della Sera» ai lettori. Sono loro gli unici destinatari delle lettere del giornalista, scomparso il 22 luglio 2001, negli anni della «Voce» (1994-95) e del ritorno al «Corriere della Sera» (1995-2001). Ma per tutta la vita Montanelli ha mantenuto una fitta corrispondenza, pubblica e privata, con i protagonisti della politica, della cultura e del giornalismo. Da questa raccolta di testi inediti, curata da Paolo Di Paolo, affiora l’intera parabola esistenziale del giornalista. Ci sono l’impeto, la toscanità ruvida, la consapevolezza del proprio talento, la spregiudicatezza, la lealtà e l’indipendenza, ma anche le angosce e le fragilità, l’inquietudine e i tormenti, lo sconforto e la voglia di mettersi in gioco.

C’é il Montanelli giovane, che nel 1937 scrive al direttore del «Corriere», Aldo Borelli per provare piazzare le corrispondenze dalla guerra di Spagna: «Sto con le truppe e viaggio con una mia automobile. Il corrispondente di guerra non so farlo ma la guerra so vederla - e credo di averlo dimostrato con i miei due libri d’Africa... Vuole utilizzarmi? Niente contratto e niente obblighi né per me né per Lei». O racconta dai Balcani a Maggie (Margarethe Colins de Tarsienne, sposata nel 1942), il bello del mestiere dell’inviato, «la macchina, l’autista, il fango, l’odore della polvere da sparo, la galletta, la borraccia d’acqua, la tenda, la barba lunga, le opinioni del signor generale, quelle del semplice soldato, chi ha coraggio, chi ha paura: la verità, cioé il bello e il brutto insieme». Il Montanelli che mantiene rapporti amichevolmente burrascosi con Eugenio Scalfari: «Polemica aperta sul piano ideologico, che sarà benefica ad entrambi, e istruttiva per i lettori; rispetto sul piano personale. Ma reciproco. Ti va bene?», gli scrive nel 1979. O ancora, nel 1991, dice no a Francesco Cossiga che intende nominarlo senatore a vita: «Purtroppo, il modello di giornalista assolutamente indipendente, anzi estraneo al Palazzo, che per sessant’anni ho perseguito e - spero - realizzato, mi vieta di accettare la lunsighiera offerta».

E c’é il Montanelli del lungo periodo al «Corriere» e al «Giornale», fino allo scontro con Berlusconi: «Caro Silvio - gli scrive nel 1983 - nell’arte dell’imprenditoria, della fantasia, dell’immaginazione, dell’audacia, dello spettacolo, di tutto, tu sei un genio e io un coglione. Nell’arte della polemica, il genio sono io e tu il coglione». E in punta di dialettica, dieci anni dopo, gli mette a disposizione la sua poltrona: «A te decidere. Io di continuare a fare il direttore contro il mio editore e sotto la sua minaccia di togliermi l’ossigeno, non me la sento. Ergo, o smetti tu o smetto io».

Il più sorprendente è forse proprio l’ultimo Montanelli, quello che rispondendo ai lettori rivela di sé più di quanto abbia fatto fino ad allora. E a un ragazzo di sedici anni spiega (è il 23 settembre 1999) perché difende Cuore di Edmondo de Amicis e, nel confronto tra il ragazzo-modello Garrone e il cinico Franti, parteggia per il primo, simbolo di valori come «il Coraggio, il Sacrificio, il Dovere, il Disinteresse, la Generosità», anche se sono «roba da antiquariato». Forse perché «anch’io - confessa Montanelli - sono un oggetto di antiquariato, felice di esserlo e di non appartenere a questa modernissima e attualissima Italia di Franti che mi dà il voltastomaco».

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