Il punto di partenza è la fine. Quella che lui chiama Apocalisse e che, a 81 anni, sente inevitabilmente farsi sempre più vicino. Ma appunto, per Ermanno Olmi - che oltre a tante primavere ha alle spalle anche diverse decine di documentari e più di venti lungometraggi – si tratta certo di un epilogo dolce. «Sono in pace e non mi farò rubare neppure un attimo della mia serenità». È lui stesso a dirlo in questa autobiografia che, inevitabilmente, sa di malinconico. «Ma non me ne importa un bel niente. Anzi, rivendico il mio diritto di godere pienamente della mia nostalgia». La quale rappresenta per lui il mezzo per ritrovare i momenti in cui è stato felice, e cioè - in una sorta di memoria leopardiana – quelli lontani dell’infanzia e della giovinezza, più che quelli della maturità artistica, lasciati infatti alla fine e certo non solo per una consecuzione temporale. «Siamo noi ad appartenere ai nostri ricordi più che loro ad appartenere a noi». E in questo senso il Maestro sentirà sempre suo il mondo agricolo, se non bucolico, che - ancora una volta non a caso - ha partorito pure il suo capolavoro, L’albero degli zoccoli, a dispetto (o forse proprio per merito) della semplicità e dell’umiltà che trasuda. E proprio l’umiltà e la semplicità sono le qualità con cui sembra essere stato scritto il suo racconto. «Ho iniziato queste mie note senza alcuna presunzione di rivelare alcunché di eccezionale». Eppure riesce comunque a risvegliare il fanciullo che è in noi, indipendentemente dall’età di chi legge. Quello di Olmi, infatti, è un testo rivolto al futuro sebbene lui, il suo di futuro, non lo prenoti più. Per lo meno fino al prossimo documentario.
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