L’inferno umano di Nikolaidis, Dante balcanico

Come elettrodomestici. Usati, consumati e quindi gettati via: dimenticati. È la sorte tragica e ineluttabile degli uomini secondo Kostantin, novello Dante che mentre un incendio distrugge l’uliveto di famiglia vaga nei gironi infernali di Dulcigno, antica potenza navale montenegrina ridotta a parco giochi per turisti, dove fetore, caldo e sudore rendono intollerabile l’esistenza. Lasciato dalla moglie, cui ha imposto impietosamente di abortire per il terrore di dover affrontare con la paternità anche il carico delle responsabilità genitoriali, e in fuga dal padre depresso e isolato nella sua casa-eremo, il protagonista di questa inquietante parabola sui rapporti umani di Andrej

Nikolaidis incontra uno stuolo di anime dannate come lui e per cui non c’è redenzione. Il compagno di scuola cui la vita ha riservato solo batoste a partire dalle scariche di botte incassate ogni giorno in classe nel disinteresse generale; l’ex pianista prodigio divenuto un invasato religioso che insegue per la via i potenziali accoliti da affiliare al suo movimento islamista; un’improbabile famiglia di mendicanti lebbrosi confinati in un garage sotterraneo dismesso e che invoca inutilmente il suo aiuto; il ruffiano disperato e senza etica, che per sbarcare il lunario arriva a far prostituire le proprie figlie in uno squallido appartamento di periferia. Una galleria umana ripugnante che “insegue” Kostantin - intenzionato solo a farsi una bella bevuta per dimenticare i troppi mali della sua martoriata esistenza - per tutte le pagine del libro: «Mi oppongo con tutte le mie forze alla corrente dello Stige che mi risucchia - scrive - in questa massa infernale di gente. Annego in questa moltitudine come un uomo che scompare sotto la superficie dell’acqua...». Ma tutta questa fiumana, al di là della voglia di fuga, sembra non scalfire più di tanto la fredda imperturbabilità di Kostantin, figlia di una concezione nichilista e tutta negativa, quasi hobbesiana, dell’uomo: «Perché la sventura umana - dice a un certo punto - non scaturisce direttamente da un sistema sociale o da una posizione geografica, essa è una forma dell’esistenza. Per essere infelici già basta e avanza trovarsi, essere da qualche parte. O piuttosto, essere e basta».Ma il finale, a sorpresa, rimescola le carte e fa tirare un sospiro di sollievo al lettore, fin lì letteralmente soverchiato da tanta cupezza e tanto buio. L’ultimo incontro nel suo personalissimo inferno, infatti, finisce per riportare Kostantin all’origine dei suoi mali (l’ossessione paterna) ma con uno squarcio di luce finalmente a rischiarare l’orizzonte. È un libro indubbiamente forte questo lavoro del 40enne scrittore montenegrino, una delle voci più interessanti dell’area balcanica nella quale l’editore trentino Zandonai sta pescando ormai da qualche anno con notevolissimi risultati. Un libro forte, ben scritto e ben tradotto da Sergej Roic, che apre al lettore italiano una finestra su un mondo vicino eppure così poco conosciuto come quello dell’ex Jugoslavia dopo le violenze che lo hanno devastato negli anni Novanta del secolo scorso.

Andrej Nikolaidis Nel nome del figlioZandonai, Rovereto (Tn) 2014pp. 114, 11 euro

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