L’orribile mattanza di Srebrenica dal lato del carnefice

Il potente libro del giornalista e scrittore croato Dikic sul massacro del 1995 in Bosnia-Erzegovina

Sono passati 25 anni da quel tragico luglio del 1995 nel quale, in piena guerra civile, a Srebrenica, cittadina della Bosnia-Erzegovina, oltre 8mila cittadini di etnia bosgnacca e fede musulmana vennero barbaramente giustiziati dalle truppe serbe al soldo di Ratko Mladić, poi condannato per genocidio dalla Corte dell’Aja assieme all’allora presidente serbo Radovan Karadžić. Una vicenda terribile, avvenuta nel cuore dell’Europa e in un’area posta sotto tutela dei caschi blu olandesi dell’Onu. Una vicenda che ha segnato nel profondo quell’area dell’ex Jugoslavia, ancora oggi non indenne a tensioni di matrice etnica e religiosa.

Si è scritto molto di questo efferato episodio, al centro di un lunghissimo e controverso procedimento giudiziario internazionale (la Serbia non ha mai pagato indennizzi alle famiglie delle vittime, dato che la responsabilità del massacro è stata attribuita all’iniziativa di singoli quadri militari e politici, peraltro solo tardivamente assicurati alla giustizia) e se ne continua a scrivere. Fresco di stampa, per esempio, è il documentato volume di Cathie Carmichael “Capire la Bosnia ed Erzegovina. Alba e tramonto del secolo breve” (Bottega Errante Edizioni, 2020, pp. 252, 18 euro).

Ma se cronaca e ricerca storica provano a raccontare e tutt’al più a spiegare i fatti, davanti a episodi come la mattanza di Srebrenica solo la fiction narrativa, se ben fatta, può fare un passo in più verso la comprensione profonda di quegli stessi fatti, o quantomeno può cercare di portarci a riviverli, da dentro, attraverso il filtro potente della letteratura. Lo fa, egregiamente, Ivica Dikic in un potente romanzo (“Metodo Srebrenica”) uscito sempre per lo stesso torchio friuliano di BEE. In Metodo Srebrenica, 280 pagine dolorosissime ben tradotte da Silvio Ferrari, il giornalista e scrittore croato 43enne imbocca la strada del romanzo per rievocare il genocidio, scegliendo oltretutto la prospettiva di uno dei carnefici, anch’egli poi condannato: il generale Beara, del quale – con l’apporto di una documentazione di prima mano – racconta ogni singolo movimento durante quei tre giorni e tre notti di follia omicida di fine luglio 1995. Se ne esce storditi ma amaramente consapevoli, una volta di più, di quanto sia davvero “banale” il male che Hannah Arendt ha così chirurgicamente disvelato nel suo resoconto del 1963 al processo contro il gerarca nazista Adolf Eichmann

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