Lo scorso anno di questi tempi si salutavano la liberalizzazione dei diritti d’autore dell’Ulisse di Joyce e la contemporanea pubblicazione della traduzione curata da Enrico Terrinoni per la Newton Compton. Una traduzione che pur premiata e innovativa nel linguaggio, apparentemente basso greve e popolaresco ma in realtà strizzato nelle torsioni linguistiche nazionali di più di sette secoli (per intenderci la via è quella che va da Boccaccio, sterza per Ruzzante e arriva fino a Testori), sembra come rimossa dall’uscita della versione einaudiana, questa sì attesissima oltre il gossip letterario da quasi una decina d’anni, di Gianni Celati. Al di là di polemiche spicce e pacchiane omissioni contenute sulle “terze pagine” dei quotidiani, solitamente tese alla ricerca di minute frattaglie piuttosto che allargare il loro punto d’osservazione all’attuale situazione culturale e intellettuale, resta il fatto che dalla pionieristica traduzione di Giulio De Angelis, pubblicata dagli anni Sessanta a ripetizione dalla Mondadori, l’Italia ha il pregio di scodellare sul tavolo delle belle lettere ben quattro traduzioni del romanzo dell’autore di Gente di Dublino: contando con le tre citate un’altra licenziata per la Shakespeare & co. nel 1995 per la cura e le note di Bona Flecchia, e ritirata dal mercato per l’innalzamento dell’età di conservazione dei diritti dell’opera. La ricerca sulle Opac bibliotecarie ha dato buoni frutti e ha reso non più introvabile questa in ordine di tempo seconda e sfortunata traduzione . Curiosamente della sua curatrice e traduttrice invece non si hanno notizie. Giuste precisazioni che consentono di entrare non più a gamba tesa in argomento e nella sublime fatica di Celati, i cui prestiti di vita consegnati all’Ulisse non possono non richiamare l’odiosamata “dannazione del tradurre” tanto cara agli intellettuali italiani degli anni Trenta facenti parti della cosiddetta “terza generazione”, meglio conosciuta come “ermetismo”. Ed è infatti un filo lunghissimo quello che dal 1922 si dipana dall’Ulisse: non solo letterario, ma anche spregiudicatamente politico ed economico. La quotidianità di Leopold Bloom è insozzata dal suo incedere e da chi lo circonda fino alla rivelazione finale della moglie Molly. Oggi lo si vede, infatti, più chiaramente con le nebbie e le rovine della Storia, anche arbitrariamente messe alle spalle, come l’opera di Joyce sia a torto o a ragione il romanzo del XX secolo e come nella sua imponente, vituperata e allo stesso esaltata torsione narrativa consenta al lettore di aprirsi a sempre nuove suggestioni. Ed è lo stesso Celati nella sua rapida e densa introduzione (ma i materiali della sua officina settennale sono sparsi in più sedi cartacee e digitali, tra profili dedicati e blog tutti diligentemente da scovare) a indicarne alcuni: personali come quello in cui lo scrittore de Le comiche ammette l’opera come ultimo atto della sua carriera intellettuale, o come l’individuazione di un “fratello” minore del romanzo, nel film di Dziga Vertov, L’uomo con la macchina da presa. Qui è l’interessante Celati cineasta ad affacciarsi e i suoi film in alcune parti risentono di quello che privatamente Beckett chiamava “joycism” e a tendere la mano sia all’avanguardie degli anni venti-trenta del ‘900 sia a quell’esigenza di scoperta del realtà che il Lizzani storico e critico del cinema individuava nel neorealismo e in quell’incandescente crogiuolo narrativo, filosofico, artistico che il Ventennio mussoliniano aveva tenuto a bada, ma non completamente fuori dalle porte di casa.
James JoyceUlisse nella traduzione di Gianni CelatiEinaudi, Torino 2013, pp. 992, 28 euro
© RIPRODUZIONE RISERVATA