Pier Paolo Pasolini, come è noto, diagnosticò una mutazione antropologica nel sentire e nel costume degli italiani, attribuendola all’omologazione impressa dalla modernità e in particolare dai mezzi di comunicazione di massa. Il termine “mutazione” è desunto dalla biologia, e accosta la modificazione culturale del Paese alla trasformazione stabile del genoma degli individui. Non è un caso, dunque, che il notevole romanzo d’esordio della poetessa Francesca Genti, nata a Torino e residente a Milano, sia ambientato in un indeterminato e prossimo futuro, in cui si è consumata da tempo una catastrofe, e gli esseri viventi – uomini e animali – hanno dato origine a degli spaventosi ibridi senzienti, entità mutanti alla disperata e contraddittoria ricerca d’un frammento di verità, del sepolto e forse inattingibile ricordo di sé. Accade così che tre amici ribelli – un body artist dal corpo modificato in animale, un poeta e un anziano astrologo cieco – si aggirino in una Milano apocalittica, sventrata e inquinata dal catrame e dal cromo, inseguendo una radura di libertà e autenticità, braccati da poliziotti conniventi e feroci cani-babbuino, gli uni e gli altri al servizio di un potere senza volto eppure onnipresente. Disseminando la propria arte in quelli che un tempo erano gli spazi pubblici della città – le snaturate aree verdi, la metropolitana, le strade, le grottesche spiagge in riva alle oleose chiazze urbane di combustibile – i tre uomini paiono mossi dall’antico sentimento dell’amore. Tuttavia, è ancora possibile amare l’altro secondo misura, ovvero senza divorarlo, senza spezzarne – quasi si fosse sottoposti a una maledizione mitica e senza tempo – la costitutiva fragilità creaturale?
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FRANCESCA GENTI, La febbre, Castelvecchi Editore, Roma 2011, pp. 169 16 euro
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