Oriana Fallaci racconta il “suo” american dream

Il miraggio della felicità, mille segreti e mai una stessa faccia: è l’America, baby, e nessuno potrà mai cambiarla. Ma raccontarla sì: come fece Oriana Fallaci, quando decise di rendere il Paese a stelle e strisce a portata di mano, in una serie di articoli scritti per «L’Europeo», e che ora Rizzoli raccoglie nel volume Viaggio in America. Era il 1965, la Luna non era ancora stata raggiunta e il mondo era un luogo diverso. Eppure, a leggere di quel luogo «che non si affeziona mai a nulla, cambia sempre indirizzo, si stacca senza dolore da tutto» sembra di vedere in nuce ciò che caratterizzerà gli States nei decenni a venire. Accade perché a scrivere è una cronista d’eccezione come Oriana Fallaci, che partendo da sé racconta l’America ma anche quell’Italia ancora provinciale che attendeva ansiosa i suoi resoconti da Oltreoceano. Come una navigata fotografa, ma armata solo di parole, la giornalista toscana regala al lettore istantanee che ritraggono l’essenza della società americana, fuggevolmente lanciata in una spasmodica «conquista dell’oro» e della comodità. Dalle case minuscole di New York alle piscine assolate di Los Angeles, da sola o accompagnata on the road da Shirley MacLaine, a colloquio con la cameriera o con Zavattini e Pasolini, gli Usa sono una continua scoperta: l’atteggiamento è quello di chi accetta anche di essere smentito, perché in America si deve sempre esser pronti ad accogliere quel qualcosa «che capovolge ogni tuo convincimento, ogni tua certezza». Come quando nella minuscola Florence, Alabama, c’è chi rifiuta il razzismo sudista mentre si preoccupa di rispettare la lingua di Dante nella traduzione inglese. Passando agevolmente da divi di Hollywood (Jane Fonda, Liz Taylor, Richard Burton), cantanti e politici a gente comune, il suo sguardo si posa su dettagli macro e micro, svelando ogni volta tutto ciò che si cela sotto il tappeto dei falsi miti. Perché mai, neppure una volta, leggendo questi articoli si ha l’impressione di arrendevolezza, pregiudizio o sterile idolatria: Oriana Fallaci, lei così cosmopolita eppure ostinatamente italiana, si è approcciata alla complessità statunitense usando tutto l’acume e lo spirito critico (imbevuto fino al midollo della cultura del Vecchio Continente) di cui disponeva per raccontare il grande sogno americano. Un sogno pieno di prospettive e di lacerazioni, che ti sbatte in faccia le sue contraddizioni e quella convinzione che forse sì, è proprio vero che nella terra scoperta da Cristoforo Colombo, tra affaristi, milionari, personaggi dello star-system, pellerossa e uomini di colore del Mississippi, ognuno può conquistarsi la “sua” Luna. Possono farlo tutti, anche quella moltitudine di silenziosi cittadini che compongono l’ossatura del Paese, o l’esigente esercito dei teenager, o ancora chi magari è costretto a combattere in Vietnam, in una guerra che la giornalista racconterà come corrispondente da Saigon, dal 1967. «L’America inquieta, immatura, infantile, che non sa come impiegare la sua gioventù, le troppe energie che vengono dal troppo riposo, le vitamine eccessive, le eccessive comodità che stanno per piegarmi, dominarmi, ingoiarmi»: e invece no, neppure l’America riuscì a piegare, dominare, ingoiare quel carattere indomito e quello stile sfrontato e intelligente che resero Oriana Fallaci una delle penne più sorprendenti e profetiche del giornalismo italiano.

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Oriana Fallaci, Viaggio in America, Rizzoli, Milano 2014, pp. 306, 19 euro

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