Tre solisti e un quarto incomodo - solo all’apparenza il protagonista - a chiudere il cerchio. Tre voci diversissime per condurre il lettore a schierarsi, quasi naturalmente dopo quasi 300 pagine di apnea, contro la pena capitale e la sua forza distruttiva. Quella che irradia a due decenni di distanza dall’assassino reo confesso di una famigliola della Georgia (la quarta voce, appunto, lo Smokey Nelson del titolo) su tutti coloro che con lui hanno avuto o hanno ancora a che fare. È costruito così il primo romanzo tradotto in Italia (da Silvia Turato, per i sempre ottimi tipi di Keller) di Catherine Mavrikakis, scrittrice americana residente in Canada ma di sangue europeo, essendo figlia di padre greco e madre francese (lingua nella quale peraltro scrive).Una voce narrante potente e impetuosa, la sua, che si manifesta in una polifonia di timbri diversissimi fra loro: quello convulso, frenetico e fluviale di Sidney Blanchard, il 39enne nero inizialmente accusato dell’omicidio perpetrato da Nelson, impegnato in un monologo ininterrotto sui propri fallimenti personali; quella pacata, lenta, mesta e dai non pochi accenti lirici di Pearl Watanabe, hawaiana non più giovane che all’epoca aveva scoperto i corpi uccisi e scambiato due chiacchiere con Smokey nel parcheggio del motel, restandone affascinata e turbata; quella imperiosa di Dio, il Dio vendicativo e cruento del Vecchio Testamento, che affolla la mente e capitalizza i pensieri di Ray Ryan, il padre di una delle vittime, promettendogli giustizia in terra e in cielo, senza mostrare alcun segno di pietà o misericordia verso gli uomini, vittime o carnefici che siano.Tali e tanti io narranti si alternano nel libro, con un effetto straniante quanto di grande intensità emotiva per il lettore, che solo al termine viene messo al cospetto dell’assassino, la cui voce, peraltro, suonerà meno forte e sofferta delle altre. E questo volutamente, perché la pena capitale, con le lunghissime permanenze nei bracci della morte tipiche del sistema americano, non solo piega lentamente l’umanità del condannato, ma trascina in un gorgo infinito tutti coloro che in un modo o nell’altro ne attendono da anni l’esecuzione. Mavrikakis lancia qui un illuministico grido di dolore contro le ferite che sfrangiano la grande bandiera americana: la pena capitale appunto, ma anche quella cultura puritana e manichea – così radicata nel profondo sud rurale del Paese – su cui questa poggia la sua ragion d’essere. Perché questa, sembra dirci l’autrice vestendo di volta in volta i panni dei protagonisti – e con essi come abbiamo visto lo stile e il punto di vista - è la drammatica ma poco considerata faccia nascosta della medaglia: lo strascico di dolore che l’agonia dei condannati riverbera sui parenti delle vittime, la cui vita è cambiata per sempre dal giorno di quelle morti violente senza senso ma che l’esecuzione, magari sospirata e attesa non riuscirà davvero a lenire. Una versione rovesciata, verrebbe da dire, del mesto motto ungarettiano: «La morte si sconta vivendo». Non tanto la propria, in questo caso, ma quella di chi, uccidendo i nostri affetti, ha ucciso se stesso e noi tutti.
Catherine MavrikakisGli ultimi giorni di Smokey Nelsontraduzione di Silvia Turato, Keller, Rovereto (TN) 2016, pp. 277, 16,50 euro
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