Crepet a Lodi: «Non abbiamo più fame, non ci cibiamo del cielo»

L’INTERVISTA Lo psicologo sarà protagonista dell’evento “Mordere il cielo” il 26 maggio alle 20.30 all’auditorium Zalli

Tuareg della comunicazione, già assessore ai sogni nella giunta di Vittorio Sgarbi a Salemi, psichiatra, sociologo, saggista e diciamolo pure, Pope dei reel su Instagram. Paolo Crepet non lo si intervista. Si “assume”. Come una droga. Il dilemma è se parlare con il professore dell’attualità o dell’invisibile. Entrambi, il tempo non lo consente. Beata la bambina della pubblicità Elah, che davanti alla parete di budini, alla domanda della mamma: “Quale vuoi?”, risponde: “Tutti”.

Partendo dal titolo dell’evento che terrà il 26 maggio alle 20.30 all’auditorium Zalli a Lodi, “Mordere il cielo”, e che è tratto da un suo libro, pensavo: si morde quando si è affamati, e mi viene in mente Steve Jobs e il suo “stay hungry, stay foolish”, quando si è impauriti o innamorati... i morsi d’amore. Come si diventa “assaggiatori di cielo”?

«Il problema è che non credo ci sia tutta questa fame nel mondo, mi consenta la metafora senza nessuna offesa per i 3 miliardi di persone che invece la fame la soffrono tutti i giorni. Sto parlando di noi occidentali privilegiati di varia natura. Questi signori e signore privilegiate non hanno certo fame, infatti si cibano del terreno, non del cielo. L’opposto».

Quindi come s’insegna a volare più in alto?

«Con l’esempio. Cioè non posso io dire cosa deve fare lei, non mi permetterei mai di dirlo, questo lo fanno gli influencer e io non sono un influencer. Sono uno che ha vissuto una grande vita ed è quello di cui parlo, non voglio impartire lezioni di qualche cosa, anche se ci sono dei titoli di miei libri che accennano a questo, non sono uno che si mette ex cattedra e dire “fate così, fate colà”. Non è il mio obiettivo».

Provoca. È un modo per suscitare emozioni di cui dice viviamo un’eclissi?

«Questo sì. Ed è quello che fa tutta l’arte: provoca. Io sono semplicemente un’artista, perché credo che quando si ha a che fare con la mente degli altri occorrano arte, la capacità di immedesimazione nell’altro, sensibilità, tutte doti che hanno gli artisti. La differenza tra me e un pittore è che lui dipinge».

In un passaggio del libro riflette: “Al destino si crede perché è comodo, agli appuntamenti invece bisogna andarci e costa fatica”. Anche coraggio, altro grande assente di cui parla. È meglio prendere le scale che accorciare i tempi con l’ascensore?

«Allora, l’ascensore può anche essere interessante. Con le scale vedi altri piani che altrimenti non vedresti, usando una metafora. Io ho fatto le scale, quindi mi permetto di continuare a farle, con fatica naturalmente perché non ho vent’anni, però dà anche più gusto».

Restando su questa immagine, vorrei parlare con lei di “corpi”. Mi impressiona sempre il selfie con l’outfit del giorno in ascensore. Declino volutamente la domanda al femminile: come ci siamo ridotte così? Premetto che mi piace la moda, come invenzione, gioco, linguaggio e mi viene in mente anche Michela Murgia, secondo cui del proprio corpo si può fare quello che si vuole, è nella nostra disponibilità. Ma ho seri dubbi che sia quello che “vogliamo” e non piuttosto un condizionamento...

«Se vuoi fare quello che fanno gli altri l’intelligenza artificiale è perfetta. Che cosa vogliono fare gli altri io non lo so esattamente, ma temo che siccome è diventato così ovvio così scontato così banale e anche così comodo fare quello che fanno gli altri, alla fine abbiamo deciso di fare quello che fanno gli altri. Non abbiamo vergogna di ripeterci, ma anche la mia tribolazione, la mia difficoltà quotidiana a fare questo lavoro qua, cioè girare l’Italia a parlare con la gente, è proprio questo. Io voglio, necessito di cambiare, di dire cose diverse, ed è “difficilissimo”. Ci può essere e c’è qualcuno che mi può dire “questa l’hai già detta”. È un rischio che corro, dall’altra parte ci sono delle opinioni a cui tengo perché credo siano importanti e vorrei rimarcarlo. Cambiare non vuol dire stravolgere, vuol dire crescere. Sono due cose diverse. Alla fine quello che cambia non è tanto il concetto, perché questo è abbastanza ovvio ed evidente, il che non vuol dire che siccome è ovvio ed evidente tutti lo seguano. Puoi dire delle cose ovvie, dopodiché domani la gente fa l’opposto. La differenza che c’è tra le persone, gli scrittori, quelli che parlano in pubblico eccetera è la vita, sono le esperienze di vita che hanno fatto. È la biografia che cambia le cose. Cioè tutti i pianisti dovrebbero sapere suonare il piano, poi ci sono quelli sommi, perché non hanno solo una tecnica spaventosa, hanno una biografia diversa. Eric Clapton ha una biografia del dolore. Fra l’altro la biografia include sempre il dolore».

Ha toccato un nervo scoperto. Non c’è felicità senza “cognizione del dolore”. Può tematizzarlo?

«Questo te lo dicono i poeti, prenda un grande poeta, un musicista meraviglioso che si chiama Jobim, un grande maestro di samba ma non solo. Diceva: “tristeza não tem fim/felicidade sim” (la tristezza non ha fine/la felicità sì). Se uno non crede a me creda almeno a Jobim, che viene da un mondo di sofferenza perché il Brasile è una terra martoriata, dove per decenni è mancata la libertà di espressione, eccetera eccetera eccetera».

Cita Guido Ceronetti: “Nelle case degli assassini non ci sono fiori”. Mi colpiscono sempre le tendine dietro le finestre delle case bombardate, messe probabilmente da una donna che costruisce un quadratino di grazia anche lì.

«Sì, ma quella grazia è una provocazione non è una resistenza, perché noi celebriamo la resistenza, la resilienza, quante volte usiamo questa parola, ma la resistenza fa stare fermo. Noi abbiamo bisogno di resistere innovando, cioè è l’innovazione che ci dice qualcosa, non la resistenza per cui uno sta là, come la resistenza elettrica, perché oltre tot watt scoppia tutto. Invece “deve” scoppiare tutto. L’opposto è un pensiero dadaista, quello di essere contro la resilienza. Lucio Fontana era resiliente? Proprio no, era un bellissimo borghese con la cravatta che ha fatto esplodere le ansie di tanta gente, di tanti mercanti, di tanti collezionisti che non sapevano che cosa stavano guardando. Non capivano, sembrava appunto un taglio, ma era una discontinuità quella che lui voleva “dire”. Io sono discontinuo, questo mi sembrerebbe un omaggio all’umanità».

Ha scritto di voler invecchiare da romantico, ammettendo di aver frequentato in passato anche una certa dose di cinismo. E arriva a dire della necessità, a proposito di invenzione, d’inventare un languore. Cosa significa?

«Che vedi un tramonto in maniera diversa. Il cinismo ti fa dire “chi se ne frega, aspettiamo la notte”. Invece il romantico segue le ombre, i colori che si impastano, per il romantico è molto di più. Però noi siamo stati cinici, è vero, non c’è dubbio».

Quindi è un cinico pentito?

«Frank Sinatra diceva: “Regrets, I’ve had a few”, “di pentimenti ne ho avuti pochi”. È una strofa della canzone My way».

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