Lodi, i nuovi volti della povertà:in quattrocento in un annoalla mensa di via San Giacomo
Sguardi scuri e occhi abbassati. In fila, senza dire una parola. Sono in attesa di un pasto caldo. Per molti, quello delle 12.15, alla mensa del povero, è un rito quotidiano; altri, invece, nei giorni più pigri, si accontentano di affondare la forchetta sgangherata dentro una scatoletta di qualcosa, abbandonati su un marciapiede della città. Oggi sono 28 gli utenti della mensa di via San Giacomo. Diciotto quelli già prenotati, gli altri arrivati all’improvviso. Per tutti c’è qualcosa da mangiare: primo, contorno e verdura. I vassoi del cibo, che da subito sembrano troppo pieni agli occhi di chi non se ne intende, poco per volta si svuotano. E quando finiscono le omelette con i piselli, i volontari prendono dalla dispensa pomodori, tonno e fagioli. Provvidenziale, invece, l’abbondanza di penne al sugo rosso. «A volte sembra che gli utenti siano pochi - commentano gli operatori impegnati avanti e indietro con i vassoi -, invece, poi, ne arrivano altri e altri ancora». Le dita affondano nei cestini del pane. Sono quelle nere degli africani, ma anche bianche e gialle di italiani, romeni e orientali; fanno scorte per il pomeriggio. Nei bicchieri acqua e succhi di frutta.
Francesco (ma il nome è di fantasia) ha vissuto fino a 30 anni con i genitori in Sardegna: dopo la scomparsa del padre, quattro anni fa, sono incominciati i problemi. Ha attraversato il mare per cercare un po’ di fortuna al Nord. Da sei mesi, tutti i giorni, Francesco trova da mangiare alla mensa di via San Giacomo. «Facevo il cuoco in una casa di riposo della Bassa - racconta -, poi ho avuto dei problemi e il lavoro è saltato. Di colpo ho perso i 1.100 euro di stipendio che guadagnavo ogni mese. Fin da bambino lavoravo come serramentista, ho preso il diploma di terza media solo due anni fa, privatamente. Per la notte, mi ospitano al dormitorio della città, altrimenti mi arrangio sotto i ponti. Spero un giorno di trovare lavoro. Vorrei che qualcosa nel mio futuro potesse cambiare».
Claudio è un personaggio misterioso: «Io - dice - ho studiato psicologia, scienze dell’alimentazione, farmacia e anatomia, ho fatto l’istruttore atletico, il personal trainer e l’istruttore di animali. Vengo qui da più di un mese, si mangia bene e ci trattano con rispetto. Vivo a Lodi, lungo il fiume, da quando mi hanno buttato fuori di casa perché non ce la facevo a pagare l’affitto».
Giuseppe, invece, 41 anni, nel settembre 2010, è stato sfrattato da casa. Era disoccupato da due anni e continuare a pagare l’affitto è stato impossibile. «Ora mi hanno promesso un alloggio - dice -; sono quattordicesimo in lista. Mi hanno già comunicato anche la via, ma devono consegnarmi le chiavi. Adesso, per dormire, sono ospite di un amico, ma non è semplice andare avanti. Con la crisi del 2008 il lavoro che avevo come tornitore specializzato è andato a farsi friggere. Da quest’inverno mi arrangio con piccoli mestieri saltuari, come muratore o tinteggiatore; in questo modo raggrenello dei soldi, circa 350 euro al mese, da offrire al mio amico che mi ospita. Tutti i problemi che ho avuto mi hanno scatenato persino delle crisi di epilessia». Francesco si è trovato all’improvviso solo e senza un futuro. «I miei genitori - racconta - sono morti e mia moglie, quando sono finiti i soldi, se n’è andata. A volte capita così con le straniere: ti cercano per stare in Italia, poi quando non servi più ti abbandonano. Spero che a settembre mi diano la casa. Sento che mi manca la terra sotto i piedi». Il problema, si inserisce un abruzzese di 38 anni, «è restare in equilibrio». Sgrana i suoi occhi tondi e si confida come un fiume in piena. «Ho terminato da poco il percorso in comunità - dice -, ma mi ha appena telefonato la mia ragazza. È uscita da San Vittore e vuole che vada a prenderla. Andare a Milano sarebbe la mia rovina. Vuol dire tornare nel giro della droga e in altri brutti affari. Non vorrei, ma mi sento anche in colpa con lei ad abbandonarla così. La mia fidanzata prende di tutto e non vuole farsi curare. Dovrei recarmi anche in comunità per il reinserimento lavorativo; se vado a Milano salta tutto». Dietro ogni faccia affondata nel piatto di pasta e pomodoro si nasconde una storia. Amara e disperata, a volte attraversata dalla speranza di una luce. Come nel caso di Alì, 28 anni, arrivato a Lampedusa dalla Tunisia e sbarcato a Lodi sei mesi fa: «In Italia - dice -, si sta sicuramente meglio che al mio paese. Qui sogno un futuro migliore». E insieme a lui sognano i suoi compagni di tavolo romeni, Roberto e il 50enne Temea Iosif Stefan. Alloggiano al dormitorio e durante il giorno si devono accontentare di lavorare in nero, come muratori, qua e là, per 7 euro all’ora. Soldi però ne girano pochi e prima di andarsene non si vergognano certo di chiedere ai volontari qualche moneta per un caffè.
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