I messaggi in bottiglia non finiscono solamente nell’immensità dell’oceano. E non parlano sempre d’amore. Qualche volta vengono lanciati nell’Adda, sperando che almeno il fiume possa cullare la tristezza. E raccontano di un mondo che non lascia spazio ai giovani, nemmeno quando fanno il possibile per impegnarsi e trovare un lavoro. Anzi, “il” lavoro, quello dei grandi sogni e dei grandi progetti.
Sabato pomeriggio le guardie ecologiche del Parco Adda sud, in servizio lungo la Valgrassa, tra Lodi e Corte Palasio, hanno notato una bottiglia che galleggiava sul fiume. Anche se di bottiglie abbandonate se ne vedono tante, questa aveva qualcosa di speciale: era sigillata e al suo interno conteneva qualcosa. Le Gev, incuriosite dalla scoperta, l’hanno aperta, trovandosi tra le mani un piccolo foglio di carta stropicciato: una lettera scritta a gennaio, con una calligrafia ordinata, precisa e “da ragazzo”.
«È un messaggio malinconico, che in questo periodo racchiude i pensieri di molti giovani, di fronte a un mercato lavorativo che ha poco da offrire», hanno commentato le guardie, incuriosite e impressionate dalla misteriosa missiva.
“Matteo da Lodi”, questa la firma in fondo alla pagina di quaderno stropicciata, aveva sognato un futuro in grande stile, ma poi ha dovuto fare i conti con la realtà. Non rivela la sua età e nemmeno quale professione avrebbe voluto esercitare, non spiega quali disavventure gli siano capitate per sentirsi così disperato. Eppure le sue parole sono impregnate dell’odore dell’Adda e della sfiducia.
Carta e inchiostro sembrano dimostrare quanto i tempi siano cambiati, al punto che oggi un “giovane Werther qualunque” non si strugge più per amore ma perché non riesce a trovare un lavoro appagante. Quello per cui ha studiato, quello per cui ha faticato. Accontentarsi non è una scelta ma un obbligo difficile da aggirare.
È per questo che Matteo in un passaggio scrive: «Quello che avevo immaginato e costruito mese dopo mese, anno dopo anno, si è dissolto come un castello di sabbia. E al suo posto è apparsa solo la paura. La vera paura. Quella di rendersi conto di aver sprecato la propria vita per costruire qualcosa che non esiste. Non so quanti siano i giovani che come me hanno sacrificato tanto per lo studio e che adesso si trovano a fare lavori neanche immaginati. E dire che il mio sogno non era neanche tanto difficile da realizzare. Questione di fortuna».
Malinconia tra le righe, sì, e un profondo senso di sconfitta per un sistema che non lascia scampo e nemmeno scelta. E chi lo sa se qualcosa prima o poi cambierà davvero.
«La cosa che più mi affligge è che non basta neanche scendere a dei compromessi per riuscire a vivere la propria vita serenamente. Becchiamo le briciole che ci vengono lasciate e non abbiamo neanche le ali per volarcene via».
Per Matteo c’è solo una via di fuga, capace però di alleviare rabbia e tristezza: l’inguaribile volontà di sognare. «Sono i sogni a farci cambiare. E sono quelli a portarci in alto». Perchè alla fine, smettere è un po’ come morire.
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