PAGLIA: «Nei ricordi la mia vita sembra quella di un altro, adesso abbiamo imparato a vivere alla giornata» GUARDA IL VIDEO

A due anni dall’inizio della pandemia parla il primario del pronto soccorso di Lodi e Codogno, uno dei primi in Italia ad affrontare l’emergenza

Sorride, strizza gli occhi, guarda, sta in silenzio. «Ho la sensazione - dice -di ricordare la vita di qualcun altro. La memoria incomincia ad affievolirsi, ma non sono sicuro che sia la memoria, credo piuttosto un percorso inconsapevole, una profonda voglia di andare oltre e il ricordo degli inizi si fa lontano». Stefano Paglia, il primario del pronto soccorso di Lodi e Codogno, tra i primi medici ad affrontare la pandemia, a due anni dall’esplosione dell’infezione, si racconta.

«Sono stati 2 anni complicati sotto tutti i punti di vista - dice-. È stato talmente diverso da qualunque altra cosa, che ha rappresentato una specie di bolla, di realtà completamente anomala, è entrata con una sorta di violenza, imponendo un cambio radicale». Dopo la prima ondata, quest’ultima è stata quella più significativa. Lui e i suoi colleghi non se l’aspettavano così. Pensavano che dopo la campagna vaccinale, la situazione in pronto soccorso fosse diversa, invece c’è stata questa piccola quota di non vaccinati che «ha subito un colpo durissimo».

Sul fronte terapeutico, dice Paglia, «la sensazione che rimane è ancora quella di una profonda impotenza quando la malattia si esprime nella sua gravità. Abbiamo imparato molto, ma per i malati gravi non abbiamo sostanzialmente nulla. L’unica arma, efficacissima, che abbiamo, per far fronte alla gravità della malattia - dice -, è quella dei vaccini». Le persone, ogni singolo individuo ha vissuto questa esperienza a suo modo. Il primo impatto è stato caratterizzato da un fortissimo ingaggio. C’è stata una volontà forte di sconfiggere la malattia, poi, quando «il fronte si è allargato tutti hanno avuto la consapevolezza che sarebbe stata una lunga esperienza»e sul piano emotivo si è fatta sentire. «Non tutti hanno resistito a questo stress - dice -. Qualcuno ha pensato di cambiare, ma la maggioranza è rimasta e si è adattata con una grandissima professionalità e una grandissima umanità, acquisendo però una certa serenità. Non si può parlare di esperienza collettiva, ma tutti hanno avuto bisogno di farsi aiutare, anch’io. I percorsi di counceling sono stati necessari all’inizio». È stato traumatico il contesto, la quantità dei morti, adesso, dice il medico, si sta passando a una normalità post pandemica. «La cosa che abbiamo imparato a fare - ammette - è vivere il presente. Quella di oggi è una bella giornata, non ci sono pazienti Covid, siamo riusciti a ricoverare bene i malati. Domani vediamo. Se ci saranno altri cambiamenti li affronteremo. Ormai più nessuno ha delle aspettative. Sembrerebbe andare tutto bene, ma non ci facciamo troppo caso». Per molte settimane, racconta il medico, «non mi vergogno di dire, e come me molti altri, ero assolutamente convinto che sarei morto. Con il senno di poi questa proiezione poteva risultare eccessiva. Era possibile, ma statisticamente non era probabile. Eppure questa cosa ha cambiato la prospettiva, sotto tanti punti di vista. tantissime persone non sono più le stesse. Molti di noi sono stati ricoverati, alla fine della giornata si accorgevano di avere la febbre e andavano via in barella, ricoverati. Una realtà difficile, anche se poi, siamo stati fortunati. In ospedale non abbiamo avuto decessi, li abbiamo avuti, purtroppo, tra i famigliari».

A mancare di più, in pronto soccorso,. è stata la presenza dei parenti, dice il primario, è stato terribile. Adesso le visite sono riprese. «Di questi ultimissimi mesi - dice - a rimanermi più impressi sono stati gli sguardi delle persone, non tanto di quelle contrarie alla vaccinazione, ognuno fa le sue scelte, quanto delle persone che erano profondamente convinte che il virus non esistesse: percepivano di essersi sbagliate nel momento in cui si accorgevano di stare veramente male. I loro sguardi, la drammaticità di questa consapevolezza è dura da mandare giù. È stato difficile per loro ed è stato difficile per noi. La seconda cosa che mi ha colpito è stata la fatica nello sguardo degli operatori quando è stato chiaro che si ricominciava. Gli occhi dicevano: “Adesso me ne vado, basta”, invece hanno continuato a lottare».

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