Rotta balcanica. L’inferno nel cuore dell’Europa
L’editoriale del direttore de «il Cittadino» Lorenzo Rinaldi
“Siamo stati consegnati dalla polizia slovena alla polizia croata. Siamo stati picchiati, bastonati, ci hanno tolto le scarpe, preso i soldi e i telefoni. Poi ci hanno spinto fino al confine con la Bosnia, a piedi scalzi. Tutti piangevano per il dolore e per essere stati respinti”. È la testimonianza di uno dei migranti della rotta balcanica, che dalla Grecia porta a Slovenia, Austria e Italia, dunque nell’Unione europea, passando dalla ex Jugoslavia. Una via aperta da anni per il transito di profughi in arrivo prevalentemente dal Medio Oriente (pensiamo alla Siria) o da Afghanistan e Pakistan ma che è meno nota all’opinione pubblica.
Non ci sono barconi in mezzo al mare, non ci sono scafisti: si marcia a tappe forzate, spesso in territori montani, sottoposti alle minacce delle polizie locali e della criminalità organizzata. A rendere più complessa la situazione, dal febbraio scorso, è la pandemia, che ha portato i paesi di transito a isolare ancor di più i profughi, a collocarli in campi distanti dai centri abitati, per ridurre il rischio della diffusione del contagio. È avvenuto la scorsa primavera in Bosnia, a Lipa, località di montagna distante circa trenta chilometri dalla città di Bihac e al confine con la Croazia. La versione ufficiale è che questo nuovo campo profughi è stato aperto per svuotare il vecchio campo allestito nel 2019 in una ex fabbrica di Bihac e in questo modo contenere il rischio della pandemia. In realtà il trasferimento di circa 1200 persone tra i monti di Lipa è servito a placare la protesta montante a Bihac contro la presenza dei migranti: spostare il problema, nasconderlo agli occhi dei cittadini e in questo modo evitare tensioni nell’opinione pubblica.
In montagna, a Lipa, mancano corrente elettrica, riscaldamento, acqua corrente e il campo è costituito da un insieme di tende nel quale vengono collocate le famiglie. L’inverno però sulle montagne della Bosnia porta le temperature sotto zero e la neve fa crollare alcune tensostrutture. In quel momento, poche settimane fa, l’opinione pubblica internazionale apprende il dramma umanitario che si sta consumando, grazie alle denunce delle Ong e dalla Organizzazione mondiale delle migrazioni.
Lipa è un luogo inadatto all’accoglienza e viene chiuso tra Natale e Capodanno. Subito dopo, un incendio distrugge ciò che la neve non aveva abbattuto. A quel punto 1200 persone non hanno più un riparo, non possono stare a Lipa e non possono tornare nella ex fabbrica di Bihac, a causa delle proteste dei cittadini. Siamo in pieno inverno, sulle montagne bosniache, in Europa, a mille chilometri dall’Italia.
Alla fine la soluzione adottata dalle autorità è la riapertura del campo di Lipa, i cui lavori vengono affidati all’esercito, nonostante quel luogo non sia adatto a ospitare famiglie fragili.
La storia di Lipa è l’ultima in ordine di tempo che arriva dalla rotta balcanica. Pochi mesi prima, a settembre 2020, si era registrata la tragedia del Campo di Moria, sull’isola greca di Lesbo, nella quale andarono distrutte tutte le strutture di accoglienza, già fatiscenti.
Chi si sta occupando di queste persone? Le Ong, l’Organizzazione mondiale delle migrazioni, il volontariato locale, la Caritas. Fin dal 2015 Caritas italiana è presente lungo tutta la rotta balcanica a fianco dei migranti e a supporto delle Caritas locali. Le autorità statali e locali di Grecia, Serbia, Bosnia, Slovenia e Croazia vedono invece la rotta principalmente come un problema da contenere. La Chiesa - e più in generale le persone di buona volontà, qualsiasi fede professino - devono continuare a far sentire la propria voce. Come ha fatto pochi giorni fa monsignor Franjo Komarica, vescovo di Banja Luka: “Ho ricordato e continuo a ricordare alle autorità locali che molte persone in Bosnia Erzegovina hanno sperimentato il pane amaro dei rifugiati e dei profughi nella recente guerra. Pertanto, come politici, dovrebbero essere ben consapevoli del dramma che stanno vivendo gli attuali rifugiati in Bosnia Erzegovina”.
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