«S. Chiara è patrimonio della città, non dei suoi dipendenti»
Il punto di partenza da cui, come gruppo di Ncd, siamo sempre partiti per la ns. valutazione su S. Chiara è tutto tranne che ideologico. Non siamo per la privatizzazione per partito preso, ma al tempo stesso non abbiamo certo pregiudizi nei confronti dell’ipotesi di una gestione di stampo privatistico anche di una struttura che eroga prestazioni in campo sociale. Il punto di partenza è il fatto che il S. Chiara, per come è stato gestito fino adesso, ha funzionato bene, si è sviluppato, eroga servizi di ottima qualità, si è modellato e modulato sulle esigenze della realtà e del contesto sociale lodigiani, ha una situazione patrimoniale e di bilancio più che buona e migliorata in questi ultimi esercizi; questi dati sono riconosciuti da tutti.
Se una cosa funziona bene, la si tiene così com’è, con la gestione che l’ha retta finora, per la semplice ragione che non c’è nessun motivo di cambiarla. Non possiamo invece accettare, proprio perché contrario al patrimonio di idee a cui si ispira una formazione come la nostra, con la sua collocazione, l’idea che l’unica modalità di erogazione di prestazioni e servizi sociali sia quella tramite strutture o apparati pubblici; non lo possiamo accettare perché è un’idea che non regge più, perché anche volendo non si riesce più a sostenere il costo di un sistema di risposta al bisogno sociale solo pubblico, perché l’esperienza ci dice che l’organizzazione dei servizi sociali in sistemi pubblici unici (nazionali o regionali) non sufficientemente flessibili e diversificati non è il massimo della vita in termini di efficienza e qualità e produce spesso un tipo di risposta generalizzato e standardizzato, e non selettivo e localizzato come invece deve essere.
Nel nostro Paese abbiamo ancora oggi una grande ricchezza di infrastrutture dovuta al fatto che, nel tempo, singole persone, associazioni, categorie, provocate dal bisogno che emergeva nel loro contesto, hanno buttato in piedi scuole, ospedali, asili, imprese, cooperative, mutue, casse rurali, opere di educazione e assistenza di ogni tipo. Questo è sempre stato il grande talento del nostro popolo e della nostra società.
Da 2/3 decenni a questa parte si è fatta strada una assurda impostazione, questa sì veramente ideologica, seconda la quale invece l’unica forma accettabile di risposta al bisogno sociale è quella che passa attraverso il sistema e l’apparato pubblico; di conseguenza si è cominciato a mettere bastoni tra le ruote di ogni tipo e pregiudiziali di ogni sorta a chi voleva impegnarsi in attività di risposta al bisogno sociale senza passare per il modello del sistema pubblico; il risultato è sotto gli occhi di tutti: un sistema di servizi pubblici che non ce la fa più, che non riesce da solo a reggere il crescente bisogno con le risorse che ci sono oggi, il cui costo contribuisce ad impoverire progressivamente il nostro Paese. Diversificare gli strumenti e i soggetti abilitati all’erogazione di servizi e prestazioni sociali oggi non è una scelta, è una necessità evidente, e pertanto se il S. Chiara intende continuare ad operare secondo una linea di gestione come quella seguita finora, ma al di fuori del sistema regionale delle ASP pubbliche, non si vede perché non possa legittimamente farlo visti i risultati finora ottenuti.
Il grosso problema che ha agitato la decisione sulla trasformazione dell’ente in fondazione è quello del rapporto di lavoro del personale dipendente; l’incertezza e i timori dei lavoratori sono comprensibili, e sono quelli che inevitabilmente vivono i lavoratori quando la struttura presso la quale prestano la loro attività si trasforma e cambia natura passando da pubblica a privata. Nel caso di specie c’è però stata una radicalizzazione della questione che ha portato ad accentuare oltre misura questi timori, facendo leva sul diverso sistema di tutela e garanzia esistente fra lavoro pubblico e privato.
Detto questo è giusto ricordare che, a partire dal 1993, anche il rapporto di lavoro nel settore pubblico è di tipo privatistico, come riaffermato del resto con chiarezza, per i dipendenti delle ASP, anche dall’art. 10 della L. regionale n. 1/2003; che in tutto il settore pubblico si sta assistendo ad una costante riduzione delle piante organiche, alla messa in mobilità di lavoratori, al blocco continuato dei rinnovi contrattuali, ad una evoluzione del rapporto tendente alla progressiva eliminazione della dicotomia pubblico/privato. Si deve ricordare inoltre che anche l’ASP pubblica ha una gestione di tipo aziendale e imprenditoriale, con la conseguente autonomia di scelte dal parte del management anche sulla gestione del personale (artt. 7 e 10 L. regionale 1/2003).
Ricordato quanto sopra, la necessità di garantire la permanenza di un rapporto di lavoro qualificato al personale dipendente quanto a trattamento retributivo e giuridico è pienamente avvertita, anche perché si è perfettamente consapevoli che uno dei requisiti per l’erogazione di servizi di qualità in campo socio-sanitario è il poter contare su lavoratori qualificati e motivati. Credo che tale esigenza sia stata risolta con il massimo di garanzia possibile inserendo l’inquadramento dei lavoratori nella regolamentazione statutaria, nell’ambito della quale è prevista come fonte di tale inquadramento esclusivamente il contratto collettivo di comparto, e sottraendo di fatto tale ambito alla disponibilità della gestione da parte del management della struttura con la riserva di competenza a favore del Consiglio comunale, tenuto ad esprimersi con carattere vincolante su ogni proposta di modifica di tale condizione in forma quasi totalitaria.
Sui lavoratori della Casa di riposo va fatta una precisazione: non è vero, come pure ho sentito più volte affermare nel corso di questa vertenza, che il S. Chiara è patrimonio dei suoi dipendenti, perché invece è un patrimonio dell’intera città, che lo ha voluto e sostenuto fino ad oggi per mettere a servizio della città stessa la sua attività di assistenza e cura, che costituisce la sua ragion d’essere e la sua unica ed esclusiva finalità.
Al di là delle legittime preoccupazioni e dei legittimi motivi di dissenso, non ci sono diritti di veto che qualcuno possa vantare su questa operazione. È vero invece che i lavoratori, i dipendenti, gli operatori del S. Chiara sono il vero patrimonio del S. Chiara, un patrimonio di professionalità e dedizione che abbiamo potuto misurare fino ad oggi e senza il quale non c’è futuro per questa struttura. Di questo abbiamo piena consapevolezza e per questo vigileremo sempre affinchè questo patrimonio non corra rischi di essere impoverito e dequalificato, con la certezza di esprimere in tal modo la preoccupazione e l’attenzione dell’intera città.
Sono convinto che una garanzia non da poco per i lavoratori sia l’appartenenza ad un’opera che la città sente propria e per questo sostiene e difende; diversamente, abbiamo avuto in questo Paese anche fin troppi esempi per poter affermare che non c’è settore pubblico che tenga e possa impedire la svendita di patrimoni di questo tipo quando a livello sociale non è forte l’esigenza della loro difesa. Mantenere il S. Chiara come opera della città di Lodi, prima ancora che come presidio del Servizio socio-sanitario regionale, è anche un modo per tener desta questa esigenza.
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