Togliere la vocazione territoriale significa

soffocare aspirazioni e modelli di sviluppo

La riforma delle banche popolari decisa per decreto dal Governo Renzi, e che punta a trasformarle in società per azioni, è un’iniziativa che, se fatta in maniera affrettata, rischia di penalizzare un sistema che ha saputo essere più attento ai risparmiatori, alle famiglie e alle imprese, tutelando anche il proprio territorio di appartenenza.

Come già in altre occasioni, il Presidente del Consiglio mostra di saper cogliere segnali e problemi che si presentano nella società e nell’economia, ma ancora una volta dà prova di scarsa propensione al confronto, volendo imporre delle soluzioni affrettate, che rischiano di creare più difficoltà di quelle che dovrebbero risolvere.

E’ già accaduto con le Province: buona l’idea di riordinare il sistema degli enti locali e di razionalizzare le risorse tagliando gli sprechi e applicando economie di scala, pessima la scelta di farlo senza un confronto preventivo con le regioni e con i territori, e soprattutto senza nemmeno porsi il problema delle competenze e dei soldi necessari a gestire anche solo l’ordinaria amministrazione. I buoni propositi del taglio delle poltrone e della creazione di nuove aree omogenee sono naufragati nell’eliminazione della sola rappresentanza elettiva e nella dichiarazione di esubero del personale (senza però preoccuparsi del futuro dei dipendenti in eccesso, 20mila pare, in tutta Italia).

Lo stile del Premier Renzi resta il medesimo anche oggi nel campo della riorganizzazione delle banche cooperative. Si tratta di una riforma che tra i suoi presupposti ne ha almeno due sbagliati, e non di poco conto; che propone un non trascurabile problema di metodo; e che rischia di avere effetti devastanti sull’economia reale, che c’è al di fuori dalle Borse internazionali e dai mercati finanziari, quella cioè dei risparmiatori e delle imprese, che soprattutto sulle banche popolari e il credito cooperativo hanno potuto contare negli ultimi anni per restare a galla e sopravvivere all’ondata di piena della crisi.

Ma andiamo con ordine.

RIFORMA, PRESUPPOSTI SBAGLIATI

L’assunto di partenza del Governo per giustificare il provvedimento sulle banche popolari è che questi istituti, soprattutto i più grandi, si sono mostrati impreparati di fronte alla difficile congiuntura economica, interna e internazionale. Si tratta, però, di un’analisi profondamente errata, visto che i numeri dimostrano l’esatto contrario: persino l’ultima relazione del Centro studi della Commissione europea sul credito afferma che le banche mutue e popolari hanno ottenuto performance ottime in tutta l’area Euro, sul fronte patrimoniale come su quello reddituale. E se non bastasse l’autorevole fonte UE a smentire il Governo, eccone allora una tutta italiana: la Cgia di Mestre sostiene che dal 2011 al 2013, nel pieno della stretta creditizia, nel nostro Paese le popolari hanno aumentato i prestiti del 15,4% mentre le banche italiane organizzate in società per azioni li hanno diminuiti del 4,9 per cento; quelle estere del 3,1%.

Non sembra ragionevole neppure l’altro presupposto dichiarato da Renzi per giustificare il decreto: tagliare il numero dei banchieri, di coloro cioè che siedono nei consigli di amministrazione degli istituti. Non credo vi sia una correlazione tra poltrone e prestiti concessi, e comunque non basta intervenire sulle sole dieci banche con maggiore capitalizzazione per risolvere il problema.

Certo, l’esigenza di riorganizzare il settore esiste, per renderlo, oltre che competitivo sul fronte internazionale, capace soprattutto di rispondere alla domanda interna di credito. Ma la strada scelta non è quella giusta, soprattutto se gli interventi finiranno per riguardare solo alcune banche, la maggior parte delle quali concentrata in Lombardia, e scelte come unico criterio in base al loro attivo patrimoniale (e qui il “nostro” Banco Popolare la fa da padrone, con quasi 124 miliardi di euro). Va ricordato che le stesse popolari stavano pensando a un’auto-riforma per adeguarsi a tempi e scenari: andava accelerato quel processo, durato forse troppo a lungo, ma di sicuro fondato su basi diverse rispetto a quelle del Governo.

Soprattutto, però, se una riforma va fatta non può limitarsi a prendere acriticamente ad esempio quel sistema di controllo e di concentrazioni azionarie che è stato una delle cause primarie della crisi finanziaria ed economica internazionale di cui stiamo ancora pagando le conseguenze.

LE INUTILI RIFORME PER DECRETO

C’è poi un grave errore di metodo nella scelta di affidare una riforma così impattante allo strumento del decreto, peraltro approvato in giorni in cui a fare da contraltare a un Governo non sostenuto da alcuna investitura popolare non c’era neppure un Presidente della Repubblica in carica. Il ricorso ai decreti è giustificato nei casi di necessità e urgenza. Non era questo il caso. Sarebbe stato più opportuno affidarsi all’iniziativa parlamentare o, per velocizzare i tempi, ma senza strafare, intraprendere la strada del disegno di legge, sul quale si sarebbe potuto intavolare un confronto in sede politica e con tutti gli attori di una vicenda tanto complessa. Come detto, però, Renzi continua a fare quello che vuole, oggi con una maggioranza, domani con un’altra, ascoltando solo i suoi amici (in questo caso, forse, quelli dei fondi internazionali, che ne avrebbero sicuramente dei vantaggi?). Il timore, poi, è che a tanti suoi consiglieri e collaboratori manchi invece la preparazione necessaria.

L’effetto di questa scelta alimenta tanti sospetti, non ultimo quello che l’unico obiettivo della riforma sia alla fine di rendere queste dieci banche appetibili per i grandi gruppi internazionali, attraverso l’introduzione della forma di SpA e l’abolizione del voto capitario, che prevede a ogni testa un voto, indipendentemente dalla partecipazione azionaria. Una mossa che consentirebbe le operazioni di risiko bancario in grado di salvare solo il Monte dei Paschi e Carige. Va comunque ricordato che le aggregazioni sono possibili anche con il voto capitario: Banco Popolare e Ubi Banca, sia pure con storie e presupposti diversi, ne sono il chiaro esempio.

TANTI RISCHI, QUALI BENEFICI?

Come ricorda anche la mozione che ho presentato e fatto approvare nei giorni scorsi in Consiglio regionale, è ancora oggi molto forte il legame tra le banche popolari e le imprese medie, piccole e piccolissime, che rappresentano il motore dell’economia lombarda. Sono soprattutto questi istituti - il 25 per cento del sistema creditizio nazionale - ad aver assicurato anche negli anni della crisi un’erogazione dei prestiti più veloce e più vicina alle esigenze delle famiglie e delle aziende. Il rischio è che questo sistema virtuoso, che ha accompagnato la crescita della nostra economia, venga smantellato e ceduto, pezzo per pezzo, al capitale soprattutto straniero, spesso più interessato alla speculazione piuttosto che al sostegno all’imprenditoria locale e al lavoro.

LA BANCA DI TIZIANO ZALLI

La Popolare di Lodi, oggi all’interno del gruppo Banco Popolare, incarna la storia di questo sistema economico, che rappresenta i territori e li accompagna. Tiziano Zalli, quando nel 1864 fondò la prima banca popolare mutua italiana, certo non poteva immaginare gli enormi stravolgimenti economici che hanno investito il Paese nei decenni successivi. Ma ora come allora, quanto più profondo è il radicamento territoriale di un istituto di credito, tanto più forte è la capacità di intessere relazioni con i risparmiatori e gli imprenditori, di conoscerne necessità e potenzialità, di farsi partner prima ancora che semplici finanziatori.

La Fondazione della Banca Popolare di Lodi negli ultimi anni ha saputo interpretare i bisogni sociali della provincia e ha finito col rappresentare, in più settori, l’unico punto di riferimento economico per progetti di solidarietà, assistenza e sviluppo. Il decreto messo a punto da Renzi e Padoan non è chiaro sul futuro di queste realtà, delle fondazioni in generale. Il rischio, in questo caso, è che l’allontanamento delle banche di riferimento dagli ambiti locali possa significare minori erogazioni e minori opportunità anche per le loro fondazioni. Ricette che all’estero hanno funzionato, non necessariamente sarebbero un toccasana da noi. Soprattutto in Lombardia, dove ogni area ha le sue peculiarità, la sua storia economica e imprenditoriale e dove funzionano filiere di sistema e distretti molto connotati (pensiamo all’agroalimentare nel Lodigiano), togliere alle banche popolari la loro vocazione territoriale, significa soffocare aspirazioni e modelli di sviluppo costruiti a fatica e nel tempo.

SERVE UN RESPIRO PIU’ AMPIO

Ciò che si chiede allora al Governo è di ripensare alla riforma, nel metodo e nel merito. Da un lato per accettare finalmente il confronto necessario a costruire norme che siano davvero più funzionali all’economia italiana. Dall’altro, per pensare a una riorganizzazione delle popolari non necessariamente basata sulla rappresentanza capitaria, ma che introduca altre modifiche statutarie, ad esempio ponendo vincoli più stringenti alla durata in carica degli amministratori, così da evitare che si creino vere e proprie dinastie o che le poltrone diventino solo motivo di arricchimento personale; oppure a fissare incompatibilità tra incarichi in più CdA.

Ma se nemmeno il passaggio parlamentare servirà a migliorare la struttura di base della riforma o, peggio, si ricorrerà a voti di fiducia per aggirare le obiezioni, restando ferma la volontà del Governo – e della BCE – di trasformare quelle dieci banche popolari in SpA, si abbia il buonsenso di introdurre dei correttivi che eviterebbero, almeno in parte, il trauma da sradicamento territoriale.

Penso, ad esempio, alla ponderazione del cosiddetto voto di capitale, così da permettere ai piccoli azionisti e agli azionisti storici di veder valutata non solo percentualmente la loro partecipazione alla banca: in questo modo, manterrebbero un peso, sia pur ridotto rispetto ad oggi, nelle assemblee, e il territorio non verrebbe totalmente escluso dal processo decisionale. Si potrebbe anche ricorrere alla determinazione di un tetto oltre il quale i grandi investitori non possano andare, per mantenere quell’equilibrio nella rappresentanza assembleare che è lo storico connotato delle popolari e che all’estero è stato mantenuto.

Insomma, il sistema bancario mutualistico può essere rivisitato. Ma la riforma non può ridursi al decentramento del potere decisionale o al semplice trasferimento di poteri da qualcuno a qualcun altro. Sulla testa dei cittadini.

In questa partita noi rischiamo di essere nuovamente marginali: se da una parte Renzi si pone l’obiettivo di salvare il Montepaschi, dall’altra ricordiamoci che abbiamo già perso quando anni fa non abbiamo saputo difendere la nostra Popolare di Lodi.

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