TRIBIANO Da trapiantato vince la lunga battaglia contro il Covid
Dopo un’odissea durata sette mesi Manfredo Cirilli è tornato nella sua casa
«Avevo paura di addormentarmi e non svegliarmi più, sono stati sette mesi terribili, ma era troppo grande la voglia di vivere: così ho vinto in questi giorni la battaglia contro il Covid dopo aver subito nel 2015 il trapianto di cuore». Tra ricordi, aneddoti e commozione, il 57enne di Tribiano Manfredo Cirilli racconta così l’odissea iniziata il 23 novembre dello scorso anno quando, nonostante lavorasse in smart working con i figli in Didattica a distanza e la sola moglie che usciva di casa, è risultato positivo al coronavirus ed è stato quindi ricoverato all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. «Con le difese immunitarie abbassate a causa del trapianto di cuore avvenuto sempre a Bergamo, sin da subito sapevo di essere un soggetto a rischio sul fronte del Covid, che nella mia situazione avrebbe potuto avere conseguenze letali - afferma con un filo di voce ma finalmente sollevato nella sua casa di Lanzano -: alla partenza in auto per raggiungere l’ospedale, mi chiedevo piangendo se un giorno avrei rivisto la mia casa, dove ho fatto ritorno solo il 9 giugno dopo un calvario lungo oltre 200 giorni». Una volta arrivato a Bergamo, Manfredo è stato ricoverato per un mese in coma farmacologico, durante il quale le speranze di salvarlo erano ridotte al lumicino. «Di quel periodo non ricordo nulla, ma il risveglio è stato a dir poco drammatico - continua nel racconto Cirilli, che lavora all’ospedale Predabissi di Vizzolo per un’azienda esterna all’Asst impegnata nei controlli della contabilità dei lavori -: avevo sempre una gran fame d’aria, come chi si tuffa in un lago dopo una corsa a perdifiato ed è costretto a respirare dal tubicino di una cannuccia. A volte avevo paura di prender sonno perché temevo di non risvegliarmi più, c’erano compagni di camera con cui stavo parlando e poi all’improvviso non sentivo più, erano morti da un momento all’altro senza che avessi avuto neppure il tempo di accorgermene». Dopo oltre quattro mesi all’ospedale di Bergamo, Cirilli è stato trasferito alla clinica Quarenghi di San Pellegrino Terme per la fase di riabilitazione, che anche in questo caso non si è rivelata per nulla semplice. «Quando sono arrivato ero adagiato su una barella senza alcuna capacità di movimento, a San Pellegrino sono tornato ad essere un uomo, adesso a casa mi sposto con il deambulatore - sono ancora le sue parole -: oltre al cuore e ai polmoni, il Covid abbassa il livello mnemonico e quello cognitivo, anche da questo punto di vista è stata fondamentale l’esperienza alla clinica Quarenghi, per la quale non finirò mai di ringraziare l’intero staff con le dottoresse Quarenghi e Maria Grazia Inzaghi e i dottori Andrea Mereu e Gian Pietro Salvi. Per quanto riguarda invece l’ospedale di Bergamo, la cui equipe mi ha salvato la vita due volte, ricordo le dottoresse Claudia Vittori e Roberta Sebastiani con l’intero reparto di cardiochirurgia, ma il grazie più grande lo devo proprio alla mia famiglia: a partire da mia moglie Giovanna, che mi ha dato la forza per andare avanti in tutto questo tempo. Quanto ai nostri figli Maria Ludovica e Carlo, dopo i cinque mesi in ospedale, si sono fatti 100 chilometri in auto per vedermi solo 30 secondi mentre scendevo dall’ambulanza e raggiungevo in barella la clinica di San Pellegrino. Molti mi chiamano “eroe”, io mi considero un miracolato, il buon Dio mi ha voluto un gran bene: all’ospedale di Bergamo sono diventato un motivatore per gli altri malati, se ce l’ho fatta io, davvero possono guarire tutti».
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