La prima cosa che chiedono i bambini è: «Ma è vero che qui avete i dinosauri?». Ormai ci è abituato Giuseppe Mazzara, curatore del museo. Il dinosauro non c’è, spiega Giuseppe. Però al museo paleontologico e archeologico “Virginio Caccia” di San Colombano ci sono altre cose che meritano di essere visitate. Tante, non tantissime. Per un motivo preciso: «A differenza di altri musei qui non c’è niente acquistato fuori. Tutto quello che vedete è stato trovato nel territorio di San Colombano. Nient’altro». Quindi pazienza se non c’è il cranio del Tyrannosaurus rex perchè quello magnificamente conservato del Rinoceronte delle steppe non è da meno. Una specie estinta che viveva nella Pianura Padana con elefanti, cervi ed ippopotami. Animali che oggi riesce difficile immaginarseli tra filari di vigne. Così come riesce difficile pensare che una volta qui ci fosse il mare da cui la collina emergeva come gli atolli di quei film hawaiani in bianco e nero. «Più che mare si deve pensare a una laguna con un’acqua poco profonda» spiega Mazzara, volto conosciutissimo da queste parti: storico, scrittore, giornalista, ecologista ante litteram e conoscitore di erbe e alberi (quei pochi sopravvissuti a tagli e scempi) della collina. Accompagna gli ospiti fra le bacheche del museo, piccolo ma meritevole di un giro da queste parti (metteteci una visita al castello e una degustazione di vini e avete organizzato la giornata), nato dalla collezione privata di Virginio Caccia, medico dentista. Raccoglieva tutto, Caccia: tutti i reperti che affioravano da scavi fatti in collina per impiantare una vigna o tirare su una casa. Quando dalla terra spuntava un osso o un coccio strano era a lui che lo portavano. Caccia univa passione e rigore scientifico: grazie ai docenti dell’Università di Pavia e ai ricercatori della Società italiana di Scienze naturali di Milano classificò tutti i reperti. Poi nel 1927 ne fece dono al Comune di San Colombano. La raccolta fu ospitata dapprima nella sala del consiglio comunale poi i reperti furono collocati nei corridoi della Scuola Elementare dove vi rimasero fino al 1965. Poi, per ragioni di studio, nel 1966 i fossili furono consegnati all’Università di Pavia. L’Ateneo pavese li studiò e custodì per tredici anni; nel mese di marzo 1979 iniziò la restituzione. A questo punto della storia c’è un’altra persona che merita di essere citata. È la maestra Bianca Belli Panigada che, con l’assistenza di Giacomo Anfossi, docente di Paleontologia dei vertebrati all’Università di Pavia, convinse l’allora sindaco Giovanelli a dare al museo l’attuale allestimento all’ultimo piano del palazzo municipale. A settembre del 1980 ci fu l’inaugurazione e l’intitolazione al dottore Virginio Caccia. L’impostazione del tutto, come detto, è rimasta quella originale: nella prima sala la sezione paleontologica, nelle saletta soprastante quella archeologica. Nella prima sono raccolti numerosi esemplari di invertebrati marini e di vertebrati terrestri di ben più ragguardevoli dimensioni come i frammenti di ossa di Cervus (mammiferi abbastanza diffusi nella Pianura Padana durante il Pleistocene), resti di Homo sapiens, parti del cranio di Bos taurus (lontano antenato dei nostri buoi vissuto nella Pianura Padana durante l’Olocene) e, soprattutto, il cranio di un Rinoceronte delle steppe (di cui è esposto anche un omero), un cranio (completo di corna) di bisonte nonché un frammento di molare ed alcuni pezzi di ossa di Elephas primigenius, il Mammuth, la cui scomparsa è fatta risalire a circa 10mila anni fa. A saperci leggere dentro, come fa Mazzara, tutti questi resti raccontano glaciazioni e sconvolgimenti: «Cambiamenti che obbligavano gli animali a scelte. O migri, o ti adatti o soccombi. L’alce migrò a Nord e il bue a Sud e si salvarono. Il rinoceronte non recepì questi segnali, non lasciò questo territorio e fu per lui la fine». Nell’altra sala, reperti risalenti a un arco di tempo compreso fra l’era gallica e quella romana come la ricostruzione parziale di una tomba a inumazione formata da due file di quattro mattoni manubrati (con una cavità che ne facilita la presa) disposti a tetto, secondo un modello detto “alla capuccina”, un’olla cineraria in impasto rosato (seconda metà del I secolo a.C) e un’anfora usata come urna cineraria. «Non sono oggetti di particolare pregio per gli standard dell’epoca - sottolinea Mazzara -. Questo fa ipotizzare a un insediamento romano di secondaria importanza». Solo qualche frammento di mosaico fa pensare alla presenza di un’abitazione, forse quella di un militare di alto grado. Leggere la storia in un pezzo di cranio: pare un sofisma da bibliotecari invece ci sono le radici di questo borgo in queste teche. Peccato che siano defilate e soprattutto che il museo non sia visitabile da chi è in carrozzina o abbia un handicap motorio. Troppe scale e barriere architettoniche. Il progetto del Comune, spiega Mazzara, è quello di portarlo in un salone al piano terra del castello Belgioioso. Quello, in effetti, è il suo posto. Storia in mezzo alla storia.
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