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Giovedì 05 Maggio 2016
L’ex comunista che crede al Paradiso: «Oggi nel mondo c’è troppa violenza»
I lodigiani hanno questo: che se ti aprono l’uscio di casa, ti ci fanno stare comodo. È la prima volta che incontro Pietro Bianchi, di Borgo San Giovanni, classe 1932; ma la nostra conversazione è stata immediatamente onesta, franca, sincera, diretta.
Mi racconta il signor Pietro: «Quando mi hanno detto che voleva incontrarmi, per parlare del Novecento, sono stato contento, perché ricordo tantissime cose, ma al tempo stesso mi sono interrogato sulle mie capacità di raccontarle, perché ho fatto sino alla quinta elementare, non oltre».
Ma un’intervista non equivale ad un’interrogazione! Le sue origini sono proprio di qui?
«Sì. Sa che questo paese originariamente si chiamava Cazzimani? Poi durante il fascismo prese il toponimo di Borgo Littorio. E, quindi, Borgo San Giovanni. Noi Bianchi, per intenderci, siamo “cazzimanini”, tanto sono lontane le nostre radici».
Cominciamo con i ricordi: quelli dell’infanzia.
«Mio padre si chiamava Bortolo Bianchi; aveva fatto la guerra del ’15-18, combattendo sul fronte austroungarico; parlava spesso della guerra, combattuta con scontri all’arma bianca, corpo a corpo. Anche il lato materno della mia famiglia era stato pesantemente coinvolta in quel conflitto. Avevo perso uno zio: Giulio Mutti, il suo nome è iscritto sulla lapide del Monumento ai caduti di Borgo. Lui faceva il portaordini in trincea, saltò in aria a causa di una bomba».
Che lavoro faceva papà?
«Il contadino; ma andava anche a lavorare alle Fornaci delle Gualdane di Lodi Vecchio, dove si producevano mattoni. Purtroppo ebbe un brutto incidente: un lembo del giaccone si infilò nella raggiera della bicicletta, picchiò violentemente la testa, e ci rimise un occhio, oltre ad avere sessantasei punti. Lasciò i campi. Provò a rimettersi in piedi, andò a lavorare in una trafileria di acciai a Milano, si godette pure un anno di pensione, ma dopo quell’incidente non fu più lui».
Che tipo era?
«Un uomo sincero, espansivo; aiutava i contadini a migliorare la loro condizione nelle cascine. Era socialista. A causa del suo impegno sindacale dovette fuggire dai fascisti. Il potere aveva reso tutti arroganti. Si picchiava, e lo si faceva con odio e cattiveria. Dovette nascondersi. E per le sue idee pagò un tributo salato. Davvero molto, molto salato. Ma preferisco non rivangare».
L’antifascismo divenne una caratteristica della vostra famiglia...
«Le racconto questo episodio: le mie zie facevano le capo mondine, e poiché durante la Seconda guerra mondiale gli aerei mitragliavano anche sui campi, loro si rifiutarono di andare in Lomellina; così i fascisti le presero e le rinchiusero in galera, a Sant’Angelo, per tre giorni. Al fronte avevo anche un fratello...».
Come si chiamava?
«Giulio, era del ‘21. Fu impegnato nelle cruenti battaglie di Russia, tra il Don ed il Volga. Durante la ritirata, ebbe la possibilità di tornare: c’era un camion che si preparava alla fuga, lo guidava un nostro compaesano, che lo invitò a salire. Ma i tedeschi spinsero Giulio a colpi di baionetta».
Cosa accadde?
«Mio fratello fu fatto prigioniero, spedito in Siberia e da lì in Asia, a lavorare nei campi di cotone. Dal freddo al caldo, si ammalò. Ai prigionieri non concedevano assistenza sanitaria: lasciavano che morissero. Mio fratello si aggrappò alla vita: mangiò lo sterco del mulo e bevve il suo piscio. Per alimentarsi e sopravvivere. Riuscì a salvarsi».
Fu fortunato...
«Forse, alla fine, lo salvò l’amore di una donna russa, che lo aveva accudito: faceva l’infermiera e lo aveva rimesso in piedi. Lei gli aveva chiesto di sposarla. Ma Giulio era fidanzato e volle mantenere il suo impegno».
Quando lo rivedeste?
«Nella mia famiglia pensavamo che difficilmente lo avremmo rivisto: malgrado questo ogni sera recitavamo il Rosario. Giulio tornò dopo tre anni dalla fine della guerra. Ricordo il suo rientro: era sera, buio fitto, e nel paese si sentivano strane urla di agitazione; uscimmo fuori, e i paesani ci venivano incontro: Giulio, è tornato Giulio!, gridavano. Era molto malato, e per quanto avesse cercato di riprendere una vita normale, una traccia rimase indelebile nel suo fisico, logorandolo negli anni».
Pietro, come è stata la sua infanzia?
«Sono cresciuto in fretta. A 12 anni mio padre mi comunicò che sarei andato a bottega, e che il mio percorso scolastico, giunto alla quinta elementare, era da considerarsi concluso. Noi eravamo sei figli, quattro maschi e due femmine. Non avevamo tanti mezzi in famiglia. Dopo di me erano arrivati altri due figli, perché i miei, pur antifascisti, avevano creduto alla promessa del Duce: soldi per ogni nuovo maschio cha arrivava nelle case degli italiani».
E i soldi giunsero?
«Macché! C’era chi diceva che da Roma il finanziamento fosse giunto a Borgo Littorio, ma qui probabilmente era finito nel cassetto sbagliato. Sa, tra il primogenito e l’ultimo arrivato vi erano 23 anni di differenza, le esigenze erano diverse, eppure fummo una famiglia molto unita».
Dove fu mandato a bottega?
«Alla falegnameria Cella, in via Defendente, a Lodi. Mi dispiacque lasciare la scuola. Però fotografavo la realtà: eravamo sì figli della lupa e balilla, ma provenivamo da famiglie di analfabeti, eravamo poveri, senza neppure i panni per vivere in quelle gelide classi durante gli inverni; altro che continuare a studiare, c’era troppa ignoranza allora per immaginare di costruire un futuro diverso».
Lei ha saputo costruirselo...
«Lodi mi ha dato tutto e mi ha concesso l’opportunità di assecondare una delle mie passioni: lo sport».
Che attività ha praticato?
«Ho giocato a pallone nella Cagliero, il cui allenatore Mino Cattini era un uomo saggio e modesto, ma intelligente e che sapeva di calcio. Sono stato anche nelle riserve del Fanfulla, ma fui sfortunato: quando stavo per entrare nel giro della prima squadra, la società fu retrocessa per un tentativo di frode sportiva e il progetto si sfaldò il progetto».
Che scalogna!!!
«Però ebbi la fortuna di essere allenato da mister Mario Acerbi, un autentico padre, uno di quelli che quando ti davano un consiglio te lo portavi per la vita come un fondamentale insegnamento. Ero terzino di fascia. Feci le finali nazionali del Centro Sportivo Italiano sul campo del Torino, il mitico Filadelfia, proprio per onorare la squadra granata perita nella tragedia di Superga: arrivammo terzi».
E di Lodi città che ricordi ha?
«Ne ho visto il bello ed il brutto. Il male si manifestava nella città bassa, dove il disagio sociale era evidente, e di continuo accadevano furtarelli di legna e di galline, dettati dal bisogno. Il buono di Lodi era la presenza delle fabbriche, il lavoro non mancava, quello era un periodo di riscatto sociale. Io stesso cominciai a fare politica nel mio paese».
Quale fu la molla?
«Uno smacco che avevo subito a 21 anni, nel 1953. Accadde che, alla santa Messa di Natale, mentre mi ero accostato alla balaustra per comunicarmi, il prete officiante mi saltò, ignorandomi. In sacrestia chiesi spiegazioni, e mi fu risposto che essendo figlio di un socialista con idee sovversive dovevo prima pentirmi.... Fu un’amarezza incredibile. Ideologicamente saltai il fosso, e mi iscrissi al Partito comunista».
Perse così la fede?
«No, non ho mai perso la fede. Ancora oggi vado a Messa. Ma non ho più chiesto la comunione. Ora che ho un’età mi pongo alcune domande: certo, anche sul Paradiso. Io credo che vi sia, e che lì troverò un senso di tranquillità assoluta, e che sarò perdonato anche di quel male che, pur involontariamente, avrò fatto nella vita».
Com’era la politica in quegli anni?
«Si pensava alla gente che più aveva bisogno. Noi comunisti eravamo fedeli alla dottrina: la Russia per noi era un modello perché ci raccontavano che lì non esistevano diseguaglianze sociali, che tutti erano uguali. Cosa è rimasto di quel tempo? Niente, solo illusioni. Oggi sono renziano».
Chi è la persona che più ha contato nella sua vita?
«Credo Edgardo Alboni. Un tipo riservato, che sapeva trasmettere valori e sentimenti alla gente. Mi ha insegnato che fare politica significa interessarsi al bene della gente, migliorandone le condizioni. Gli devo davvero tanto».
Mi dica una priorità che ha avuto come amministratore.
«Mi sono occupato di svariate cose, anche di droga, perché qui ne girava: otto ragazzi del nostro paese sono sepolti al cimitero per questa roba. Un aspetto drammatico. Coinvolgemmo le famiglie, allertammo la massima attenzione, e realizzammo un’opera di prevenzione. Ho subito un agguato, e il furto della macchina per ritorsione, ma estirpammo questa piaga».
Meglio oggi oppure ieri?
«Non mi piace il periodo attuale: troppa violenza nel mondo. Mi sembra che siamo dentro un buio profondo. La politica dovrebbe essere più onesta, e invece le banche truffano i loro risparmiatori. La questione morale è stata radicalmente abbandonata: è una vergogna. È da questa che occorrerebbe ripartire».
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