L’indomito “reduce” dei sogni perduti

Un reduce dei sogni perduti. O, come mi è stato detto da chi del Lodigiano e dei suoi uomini conosce fatti e misfatti, un autentico galantuomo della politica. Bassano Rinaldi è un uomo senza fronzoli e orpelli, uno che va dritto al sodo delle questioni: non dimentica, e sa distinguere. Il suo giudizio su Novecento è tagliente: «Lo definirei - dice senza indugi - un secolo tragico, per tanti motivi».

Quali?

«Intanto per i due conflitti bellici, con il secondo che provocò pure una guerra civile, e di cui ho ricordi personali. Poi vi fu la parentesi del boom economico, dal 1948 alla metà degli anni Sessanta, che riequilibrò le sorti del paese. Dopo arrivarono gli anni di piombo, che costituirono almeno nello spirito un’altra specie di guerra civile, con le Brigate Rosse e il terrorismo nero. Infine l’economia che prese ad andare a rotoli, sino alle tragiche, attuali conseguenze».

Mi diceva della seconda guerra mondiale...

«Io sono del 1935 e dunque ricordo bene la fine del conflitto. Mio padre Erminio morì nel 1942, in seguito ad una malattia contratta per cause belliche. Di lui ho un’immagine vaga: dicevano che fosse un bell’uomo. Era fascista».

Cosa faceva papà?

«Noi Rinaldi eravamo agricoltori, alla cascina Crocetta di Brembio. La nostra era una famiglia perbene: in cascina arrivava tanta povera gente, chiedeva ospitalità e veniva alloggiata al fienile; mia nonna e mia madre preparavano la scodella di minestra per tutti. Ricordo un tale che faceva la questua, affacciandosi alle corti e suonando un triangolino in metallo. E poi un socialista, che era stato mandato al confine: faceva il ciabattino, il “bagatt”, e girava con la cassetta degli arnesi di lavoro a tracolla».

Com’era il clima sociale a Brembio durante la guerra?

«C’era un distaccamento di soldati tedeschi, ma non si trattava di militari ostili. Anche se vi fu un grave episodio in un contesto assurdo: durante la fiera del 19 marzo del 1944 due militari tedeschi spararono al tirassegno, colpendo e ferendo gravemente un mio carissimo amico, Giuseppe Lazzarini, che tutt’ora ne porta le conseguenze. Ecco, quello fu l’episodio più grave della loro permanenza. Poi c’era un altro distaccamento tedesco a Segugnago».

Con quale compito?

«I tedeschi stavano alla Fabbrica dei concimi chimici e insieme ai loro prigionieri mongoli ricostruivano il ponte di barche di San Colombano al Lambro».

La sua fede fascista albeggia in quel tempo lontano?

«Sì, ma non era solo una tradizione di famiglia. Ricordo che in cascina alla sera giungevano i militi della Guardia Nazionale Repubblica e quelli dell’“Aldo Resega”, una milizia di anti partigiani. Tutti parlavano con ammirazione di Mussolini, e nel tempo libero insegnavano a noi ragazzi a sparare in campagna con il mitra e il moschetto. Ma, probabilmente, aderii per un convincimento più profondo».

Quale?

«Saprà certamente che, finita la guerra, i partigiani cercavano le donne fasciste per radere loro i capelli. Per tosarle, dicevano. Cercarono anche mia madre, Paola Vignati, che fu messa in salvo da un cugino partigiano. Ad altre tre donne di Brembio andò male. Quell’atteggiamento lo vissi con un sentimento di profonda delusione: i Rinaldi avevano aiutati tutti, e questo era il modo di ripagarli! Eppure mia nonna era benvoluta da tutti, perché facendo l’ostetrica aveva aiutato tantissima gente, senza nulla chiedere in cambio. Morì in un incidente stradale mentre accompagnava una partoriente a Lodi».

La sua vita da ragazzino non fu solo moschetto e mitra?

«No, certamente. Ho studiato, sino a diplomarmi ragioniere. Feci le medie al Cazzulani: si arrivava a Segugnano a piedi, e qui si prendeva il treno bestiame per raggiungere Lodi. Tra me e la scuola c’era allergia: una forma di distacco, non mi piaceva. A tredici anni erano altre le cose che m’interessavano: come la politica».

A chi guardava?

«Inizialmente alla Democrazia cristiana: non so quanti manifesti ho attaccato, nel 1947/48. Ma più ancora che democristiano, io mi sentivo anticomunista. A seguito dell’amnistia Togliatti entrai in contatto con alcuni che avevano aderito alla Repubblica Sociale: erano dieci anni più grandi di me, ma si creò un’immediata sintonia, come accadeva fra noi camerati».

Chi erano questi riferimenti?

«Fausto Cappelli, deceduto poi in un incidente in moto, e Giuseppe Ferrari detto “Mistero”. Grazie a loro, aderii al Movimento Sociale Italiano. Nel frattempo ero entrato nel mondo del lavoro: assunto dalla Sip, prima a Milano, ebbi poi il trasferimento a Lodi, dove venni a vivere nel 1963, proseguendo il mio impegno politico».

Com’era l’ambiente di destra a Lodi?

«Tranquillo, quasi deludente, almeno sino agli inizi degli anni Settanta. Però poi vi furono alcune turbolenze: ci incendiarono la sede; giunsero da San Donato Milanese e da San Giuliano, una domenica mattina, erano circa quattrocento, mentre noi eravamo una quindicina: ma uscimmo fuori con le nostre bandiere».

E l’ordine pubblico?

«Il commissario Gambardella ci disse che tutte le pattuglie erano impegnate sul territorio milanese perché il boss Luciano Liggio era scappato da una clinica a Milano. Fu inviata solo una pattuglia ed gli agenti spararono un colpo in aria per disperdere l’assembramento. Una seconda volta di notte lanciarono contro alla porta della nostra sede, incendiandola, alcune bottiglie molotov».

Lei è stato consigliere comunale...

«Durante l’amministrazione Cancellato, un sindaco pieno di iniziative: se non vi fosse stato il declino del Partito Socialista, seguito a Mani Pulite, avrebbe avuto tutt’altro percorso politico. Lo ricordo come uno davvero in gamba».

Signor Rinaldi, lei come segretario del suo partito si è impegnato per intitolare una via allo studente fascista Sergio Ramelli, ucciso nel 1975...

«Un grande rammarico non esservi riuscito. I suoi genitori erano di Lodi, e lui non era certo un facinoroso. Aveva scritto un tema contro il Movimento Studentesco e gli fu fatale la spedizione punitiva: fu sprangato con le chiavi inglesi. Quaranta giorni di coma e poi la morte. Io conoscevo molto bene sua mamma Anita: visse questo dolore straziante con grandissima dignità. La proposta l’aveva fatta una zia del ragazzo: era volta a dare dignità al suo ricordo, attraverso una scelta di pacificazione. Insistetti anche da consigliere comunale. Ma si mise l’Anpi di mezzo, e il progetto tramontò».

Ci fu un altro lodigiano implicato in una misteriosa morte...

«Giancarlo Esposti, conoscevo benissimo anche lui, sospettato di essere uno degli esecutori della strage di Brescia. Francamente inverosimile, con un identikit errato, diffuso per incastrarlo. Ho sempre pensato che quel fatto criminoso non fosse da imputare al terrorismo nero. Secondo me volevano colpire la polizia, perché la bomba era stata posta in un cestino sotto ai portici. Poi venne la pioggia e la gente che partecipava ad una manifestazione sindacale si pose al riparo nel loggiato: e in quel momento avvenne la strage».

Lei ha frequentato Almirante...

«Sì, un personaggio unico, dotato di un’oratoria che incantava. Era gentilissimo, educato, un uomo affascinante: aveva il senso della Storia e collegava diversi argomenti in un unico filone logico. Se non fosse stato un uomo d’opposizione, sarebbe stato un ottimo uomo di governo, uno statista eccellente».

Una grande ammirazione...

«Almirante era partito dal basso. Era stato persino venditore ambulante, qui nei paraggi, insieme a Pino Romualdi. Ebbi modo di conoscerlo attraverso Enrico Achilli, che aveva fondato a Lodi un periodico dal titolo Il Rinascimento, di tendenze destrorse. Almirante era un tipo anche alla mano. Ricordo una partecipazione immensa di folla ai suoi funerali: quando mi avvicinai a donna Assunta per le condoglianze fummo sorpresi da un convulso singhiozzare, era il mio amico e camerata Sergio Gallotta di Lodi, che sfogava tutto il suo dolore».

Dopo Almirante vi fu l’epoca di Fini...

«Non ne parliamo! Non era l’uomo adatto al Movimento Sociale. Infatti, io ero per Rauti».

Signor Rinaldi, ma destra e sinistra oggi hanno ancora un senso?

«No, non ce l’hanno. Prima c’era lo scontro tra comunismo e capitalismo ed il fascismo poteva essere la terza via. Crollato il comunismo è finito il sistema delle ideologie. Ma a me è dispiaciuto l’atteggiamento di alcuni ex camerati, che hanno rinnegato persino le proprie radici: la Storia è una cosa, l’attualità è un’altra».

Oggi lei è distante dalla politica...

«Non c’è alcun politico su cui fare affidamento».

Signor Rinaldi, sono sicuro che lei non mi abbia voluto raccontare tutto, e abbia tenuto un profilo basso. Mi sbaglio?

«Lei dice? Forse mi trova stanco: c’era un tempo che qualunque cosa dicessi, si faceva immediata dietrologia. Sapesse quante volte sono stato convocato nelle aule giudiziarie, quale persona informata dei fatti. Però è tempo di chiudere quelle pagine».

Cosa conserva di quei periodi a livello personale?

«Il sentirmi dentro una fortezza Bastiani, pronto ad attendere il nemico. Ho servito un sogno: il desiderio di creare un ordine nuovo di giustizia, non certo di vendetta. Ma il tempo dei sogni è finito da un pezzo».

(A)titolo link

© RIPRODUZIONE RISERVATA