Ho letto con molta attenzione gli interventi a commento del D.L. con cui il governo è intervenuto sulle banche popolari abolendo il voto capitario e il limite dell’1% alla detenzione delle quote di partecipazione, corredato dall’obbligo per le 10 maggiori banche del ramo di trasformarsi in s.p.a. nel giro di 18 mesi, e non posso non unirmi alla generale preoccupazione per gli esiti di una riforma che, se non modificata con correttivi, rischiano di produrre danni al sistema del credito italiano.
Credo che uno degli aspetti negativi di questa riforma sia quello di intervenire in termini generali sull’intero settore delle banche popolari, preoccupandosi poco dei riflessi che si potranno avere sulle specifiche realtà territoriali in cui alcune di esse sono radicate storicamente; in questo modo sono state enfatizzate le criticità che indubbiamente sono emerse in questi anni nella gestione di tali istituti di credito, tra le quali possiamo annoverare - beninteso, per alcune realtà aziendali e senza generalizzazioni - esempi di mala gestione e di scarsa efficienza, situazioni di conti non in ordine, diminuzione della quota di impieghi verso la clientela (privata e commerciale) in percentuale maggiore rispetto ad altre realtà del settore creditizio, la difesa di interessi corporativi magari giocata proprio sulla difesa del voto capitario (BPM su tutti), bassa qualità degli attivi, fattori di debolezza dovuti ad un generale sottodimensionamento (comprendendo nel discorso il settore del credito cooperativo) da contrastare favorendo processi aggregativi.
A fronte di questi e altri aspetti negativi, è reale la preoccupazione che questo provvedimento, mettendo di fatto sul mercato realtà aziendali comunque appetibili e prive di azionisti di maggioranza, possa favorire gli appetiti di grandi gruppi esteri nei confronti delle nostre banche più radicate sul territorio, tenendo anche conto del fatto che le banche italiane maggiori, Unicredit e Intesa in testa, non hanno la voglia o la forza di crescere ancora in Italia e comunque non possono per motivi di antitrust risolvere autonomamente la questione del consolidamento bancario italiano, le fondazioni andrebbero contro un’opposizione fortissima e gli imprenditori non hanno miliardi di euro per sfidare colossi che prendono a prestito dalla Bce allo zero virgola.
In ogni caso sono in pochi a pensare che, con queste novità normative, possa realisticamente essere difeso quel modello di banca a relazione fiduciaria fondata su un’antropologia positiva della persona e della famiglia, che fa sì che tutti gli utili bancari che non servono alla ricostituzione continua della macchina organizzativopatrimoniale e finanziaria, ossia tutti i profitti che rimangono, vengano continuamente riversati nei territori in cui le banche cooperative e popolari sono nate ed esercitano il loro lavoro provvidenziale per le piccole e medie imprese e le famiglie.
Altro motivo di personale dubbio sulla bontà dell’intervento governativo è la sua reale pertinenza con il sistema economico-produttivo del nostro Paese, la cui ossatura è costituita da una miriade di piccole e medie imprese (ma anche di micro-realtà aziendali) nei cui confronti l’unica attività di credito efficace appare quella esercitata dalle banche vicine e contigue territorialmente, le uniche che dimostrano spesso di avere una conoscenza diretta del piccolo imprenditore, del commerciante o dell’artigiano e delle potenzialità della loro attività.
Per questo nel Lodigiano avvertiamo una preoccupazione particolare, non solo per il fatto che il nostro territorio ha visto nascere e crescere e tuttora ospita una delle banche popolari che saranno toccate dalla riforma, ma ancora di più per il fatto che la BPL - sia pure nel gruppo Banco Popolare - ha avuto e continua ad avere un’incidenza sul tessuto sociale lodigiano e su tantissimi dei suoi abitanti che appare irrinunciabile in termini di attenzione e sovvenzione a molteplici e svariati bisogni collettivi e individuali.
Una prossimità e una implicazione col territorio favorite dal fatto che, attraverso quel modello organizzativo e gestionale di banca popolare, è stato sempre possibile avere ai vertici dell’istituto persone pienamente calate nella nostra realtà sociale, partecipi e coscienti delle sue necessità. Ora tutto questo appare in pericolo e rende urgente attivarsi con tutte le forze a disposizione per sostenere istanze di modifica della riforma, magari in appoggio agli sforzi dell’Associazione nazionale fra le Banche popolari che sta elaborando un progetto di autoriforma da sottoporre al governo.
Vorrei però approfittare di questo tema anche per una riflessione sulle parole amare e sferzanti con le quali Il Cittadino, tramite il suo Direttore, lo scorso mese di luglio e poi pochi giorni fa nell’articolo a commento del D.L. sulle popolari, ha denunciato il costante e progressivo depauperamento del Lodigiano, man mano destinato a perdere le sue più significative istituzioni e realtà infrastrutturali: dalla Provincia alla Camera di commercio, dall’Asl e dall’A.O. alla centrale operativa del 118, dall’Aler alla Prefettura, e via proseguendo.
Personalmente intendo i due articoli de “Il Cittadino” come un invito a scuotersi prendendo atto di una realtà oggettiva che è messa in luce proprio da quel depauperamento, una realtà che, sulla scorta di una acquisita autonomia amministrativa che ci ha illusi di poterci gestire da soli, non si tiene sempre presente: precisamente che non abbiamo alle spalle un sistema economico-produttivo, infrastrutturale, di servizi e istituzionale “lodigiano” in grado di reggersi autonomamente. Non c’è un sistema economico-produttivo lodigiano che sia in grado da solo di soddisfare la domanda di beni e servizi e i bisogni occupazionali della nostra popolazione, così come di alimentare il ciclo produttivo delle aziende che lo compongono (e questa è la realtà certificata dalla possibile chiusura della Camera di commercio, ma anche da vicende come quella della Fiera, tanto per fare un esempio); non c’è un sistema delle infrastrutture e dei servizi “lodigiani” che possano reggere da soli in un contesto di grandi sforzi di razionalizzazione e ottimizzazione delle risorse (vedi Asl, Azienda ospedaliera, Aler, ma anche Agenzia per il trasporto pubblico locale, per fare un altro esempio); e così diventa dubbio che possa reggere anche un sistema istituzionale lodigiano, con Prefettura e Provincia (si può benissimo difendere le province, sempre che si abbia il buon senso di giudicare assurda quella proliferazione di nuove province a cui abbiamo assistito negli anni scorsi).
Ciò da cui dobbiamo partire è che il territorio lodigiano è indubbiamente una realtà con le sue specificità, ma con poche risorse e poca popolazione (poco più di 200.000 abitanti in una Regione di 10 milioni di abitanti), una realtà microscopica a fronte di colossi come Milano, Bergamo o Brescia e, comunque, circondata da realtà territoriali ben più rilevanti.
Mi sembra a volte che la giusta difesa e sottolineatura delle specificità e dell’identità lodigiane, e quindi di quelle realtà che le esprimono, siano invocate per giustificare la pretesa di una loro gestione in autonomia, che però non è altro che una gestione domestica, inter nos, con uno sguardo rivolto più al proprio interno che a guardare lontano e al confronto continuo e scomodo con altre realtà più grandi della nostra; se è così, mi sembra che si sia avviati su una strada alla lunga impercorribile e comunque impraticabile per le necessità di un territorio in grande sofferenza come il nostro.
Personalmente ritengo che la valorizzazione e lo sviluppo del Lodigiano non possano che passare attraverso un infittirsi di rapporti e relazioni con gli altri sistemi territoriali che ci circondano, cercando nell’integrazione sempre maggiore con essi occasioni di sviluppo e opportunità di crescita; i caratteri specifici della nostra terra e le sue ragioni di identità vanno giocati anche all’esterno come valori e aspetti di appetibilità che possano suscitare e promuovere l’interesse per il Lodigiano; in questo senso anche tratti non strettamente utilitaristici (le infrastrutture, i collegamenti, le competenze) come i valori culturali, ambientali, il senso della comunità e della solidarietà, la vivibilità, possono giocare un ruolo importante.
Credo che sarebbe controproducente ricavare dagli interventi provocatori e sferzanti de Il Cittadino l’impressione di un invito ad una difesa chiusa e gelosa di assetti finora gestiti in casa nostra secondo abitudini consolidate. In un mondo in cui sta cambiando tutto non possiamo vivere di rammarico per il tempo che fu, ma dobbiamo trovare stimoli e coraggio di giocare col massimo senso di apertura le potenzialità di cui il nostro territorio è comunque ricco, con la fiducia di avere molto da offrire a chi desidera avviare o impiantare da noi nuove presenze commerciali, professionali, sociali o culturali.
Credo che, come già in altre occasioni ho avuto modo di esprimere, in questo contesto di maggiore propulsione e dinamismo sia fondamentale che Lodi, come capoluogo, cresca sempre di più in un ruolo di capofila e di rappresentanza dell’intero Lodigiano, in una relazione di servizio nei confronti delle altre municipalità che, dal canto loro, devono saper cogliere in questo un’opportunità per superare un particolarismo che il nostro territorio in molti casi non può più permettersi.
È un lavoro difficile, scomodo, magari anche non gradito da tutti, ma che credo debba essere avviato per il futuro delle nostre comunità.
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