Quelle prime elezioni... al femminile: «Un secolo di progressi per la donna»

La signora Santa Bertelli - nel suo ampio novero di amicizie conosciuta come Santina o Tina - è stata maestra di lungo corso per la scuola primaria, prima nella Bassa e poi a Lodi.

È una donna che conosco da anni, essendo la mamma di tre figli che apprezzo: Sergio per la sua qualità di scrittore; Mauro per essere stato, prima dell’approdo a Repubblica, una delle colonne storiche de il Cittadino; Pierantonio per i suoi tanti estri e per una consolidata amicizia. Però, con la signora Tina, più che larghi sorrisi, buongiorno e buonasera, non ci siamo scambiati. So che è originaria di Guardamiglio, e già questo me la rende simpatica; lì nacque infatti uno dei miei grandi maestri: don Leandro Rossi.

Signora Tina, ha conosciuto don Leandro?

«Certo. Lui era del 1930, quindi tre anni più giovane di me. Entrò ragazzino in seminario, ma mantenne i legami con il paese e con i suoi famigliari. Allorché si parlava di lui, c’era un’aurea di assoluto rispetto. Era un uomo generoso, anche quando non era ancora... don Leandro!».

Se non sbaglio Guardamiglio, nel passato, è stata una culla di vocazioni...

«Vero. Oltre don Leandro, c’erano i fratelli Siboni; don Frignati; e poi don Emanuele Gamba, che fece il missionario in Sudamerica. Un personaggio, quest’ultimo, di spessore umano e intellettuale: sapeva consigliare i giovani, riconoscendo i talenti di ciascuno».

Per un paesino non era poco....

«Guardamiglio sarà pur stata una piccola comunità, ma non un paesino. È stata una fra le prime realtà ad assurgere al rango di Borgo, grazie a certe peculiarità, come il dialetto, con il suffisso “en” ben pronunciato, e con idiomi fortemente diversi dai paesi limitrofi. A Guardamiglio si respirava un’aria particolare: vicina alla Lombardia, faceva parte dell’Emilia, e lo stesso toponimo indicava, appunto, la quarta miglia da Piacenza».

I suoi genitori erano di lì?

«Mio padre, sì. Si chiamava Pietro, era del 1883: faceva il masnant, commerciava in granaglie; acquistava il frumento, che poi rivendeva a Piacenza. Prima ancora era stato mugnaio: macinava granturco per le bestie; si appoggiava al Molino delle Monticchie. Lo accompagnavo, ma lui non voleva perché vi erano le rogge e temeva che vi finissi dentro».

Era un uomo apprensivo?

«Tutt’altro, all’apparenza. Era rigido, tutto d’un pezzo. Ricordo che una volta, avevo 8 anni, fui mandata alla colonia estiva, dalle parti di Como: andarvi costava 300 lire, un impegno economico non irrilevante. Il fatto che papà avesse acconsentito a quel viaggio mi appariva una circostanza straordinaria! Quando andai a salutarlo, nel congedarmi, mi disse: Fa la brava. Sentii un senso di grande responsabilità».

E la sua mamma, invece?

«Si chiamava Antonietta Cappelletti, originaria di Brembio. Di lei ricordo la generosità. A Guardamiglio si era tutti poveri. Ma quando in primavera si celebrava la Prima comunione, le famiglie tenevano ad avere un abito buono per i propri figli. Mia mamma prestava i soldi alle altre donne: appuntava in un quadernetto nero il dato per la ricorrenza, e il restituito in autunno. Non negò ad alcuna il proprio aiuto: una solidarietà tutta al femminile».

Con un uomo severo come il marito andava d’accordo?

«Le dirò che i miei genitori formavano una bella coppia: mamma badava più che altro alla casa, ma non si faceva comandare dal papà, gli sapeva tenere testa. Fece così anche con i tedeschi».

In che senso?

«I tedeschi, nel servizio di difesa del ponte per Piacenza, vennero a requisirci la casa. Pretendevano l’intero primo piano. La mamma impose loro l’alloggio del piano terra. La convivenza non creò problemi: ma il nostro cortile sembrava una piazza d’armi, i soldati stavano sempre a manovrare con i fucili».

Quali altri ricordi ha di quel periodo?

«Credo che quello più forte sia rimasto il giorno del 25 aprile 1945. Passammo dalla paura all’agitazione, poi all’incredulità e alla felicità».

Cosa accadde quel giorno a Guardamiglio?

«La via Emilia era un colonnato di tedeschi in marcia. Erano tutti nervosi. Ricordo un dirimpettaio di casa nostra, Pepin, che provò a chiedere loro dove stessero dirigendosi, ma fu cacciato, con la minaccia di una mitragliata. Ci fu un particolare strano, che riguardò la mia famiglia: ancora una volta casa nostra fu requisita con l’ordine di allestire una camera da letto per fare riposare un ufficiale tedesco molto provato».

Non avevate una sensazione di fuga?

«Non riuscivamo a capire. Nessuno aveva informazioni. C’era una sensazione di smarrimento. Nel volgere di poche ore quella marcia assunse le proporzioni di un’incredibile ritirata: una presenza che sembrava perenne si dissolse, come non vi fosse mai stata. Poi la radio annunciò la Liberazione».

Festeggiaste?

«C’era un silenzio irreale, inizialmente. Fui tra i primi a precipitarmi in chiesa e ad issarmi sul cordone per movimentare il batacchio: la corda mi tirava su per aria, e avevo la sensazione di non tornare più indietro: finii per terra, ma quel suono a distesa, scoordinato eppure bellissimo, non l’ho mai dimenticato».

Quegli anni lasciarono il segno in lei?

«In qualche modo sì. Sollecitarono un impegno, al pari della fede. Ricordo, ad esempio, le prime elezioni del 1946 a suffragio universale: giravamo nelle varie cascine del paese affinchè le donne prendessero coscienza dell’importanza del voto. Nessuna sapeva come era fatta la scheda elettorale e ciò intimidiva. Ma la nostra finalità era, soprattutto, promuovere l’emancipazione femminile. Il Novecento ha visto realizzare tutti questi progressi».

Quale altra lezione possiamo ricordare di quel secolo?

«L’impegno a migliorare la propria posizione sociale, attraverso il lavoro, che almeno a quei tempi c’era per tutti».

Mi diceva della fede...

«È stata importante: mi ha aiutato ad assumermi delle responsabilità, e nel curare i bisogni degli altri anche a migliorare l’approccio organizzativo».

Lei dopo la guerra diviene maestra...

«La scuola è stata nel mio destino. Mia mamma raccontava sempre che quando andò a vivere a Guardamiglio rimase molto sorpresa che non vi fosse l’edificio scolastico: l’assenza di quella struttura, me ne faceva cogliere l’importanza. Pensi che io divenni maestra, e l’edificio non era ancora stato realizzato».

Possibile?

«Glielo assicuro; a Guardamiglio si avevano comunque cinque aule scolastiche: due in Comune e tre in uno stabilimento sito in piazza; c’erano i servizi, ma senza acqua corrente. Gli insegnanti venivano tutti da Piacenza, tranne il maestro Riboni, che faceva la IV e la V elementare congiunte, riservate solo ai maschi. Chi voleva fare gli esami d’ammissione alle medie doveva sostenerli con lui, e questo creava qualche problema, perché era un insegnante nervoso, che si arrabbiava facilmente, e manifestava qualche preconcetto».

E le femminucce?

«Erano seguite dalla maestra Toscani, una di Piacenza, ma con un fratello prete nella vicina Valloria. Anch’io ho cominciato ad insegnare in quella frazione; andavo in bicicletta, c’era buio fitto, la scuola era di sera, e avevo paura: d’inverno mi riempivo di neve».

Scommetto che non le pesava più di tanto: l’insegnamento è stata una passione per lei...

«Questo sì. Anche se non è che tutti i bambini avessero tanta voglia di studiare: non mancava i ripetenti, qualcuno aveva 13 anni e doveva finire le elementari. A Castiglione d’Adda ho fatto la VI, un anno inteso come percorso di completamento, affinchè le famiglie decidessero cosa fare dei loro ragazzi: se mandarli alle medie oppure indirizzarli a lavoro. Molti finivano a Piacenza, alle scuole di avviamento al lavoro per diventare tornitori».

Nel frattempo lei conobbe suo marito...

«Giuseppe Rancati detto Pino. Ci conoscemmo a metà degli anni Cinquanta. Facevo l’assistente alla colonia Pontificia e lui frequentava un pensionato attiguo per la sua villeggiatura, con la sua compagnia di amici, fra cui Pinetto Savarè e Rinaldo Bestazza. Mi colpì perché era un giovane distinto, anche belloccio, diciamolo pure. Fummo fidanzati per tre anni: un corteggiamento all’antica. Ci sposammo nel 1958».

Suo marito era politicamente impegnato, ricordo bene?

«Fu segretario di sezione della Democrazia cristiana e presidente dell’Azione Cattolica locale: ogni tanto dovevo ricordargli che avevamo tre figli, perché lui metteva molto slancio nell’attività politica».

Lei prese quindi ad insegnare a Lodi: riscontrò differenze rispetto alle scuole di provincia?

«No. Le svelo un particolare: si compravano a rate, ma tutte le famiglie avevano in casa un’enciclopedia. Segno che all’istruzione ci si teneva. Ebbi il piacere di lavorare con colleghi e colleghe bravi e competenti».

In particolare?

«La maestra Agnese Albanesi, che mi aiutò molto quando, alla frazione Olmo di Lodi, presi una pluriclasse, con obbligo di tre programmi differenti. Poi il direttore Ubaldo Boccia, alla scuola Pascoli, un uomo che sapeva ascoltare e valutare, nella fermezza dei propri principi».

Lei era temuta dagli alunni?

«Sapevo tenere la classe. Ricordo un particolare: a seguito della nascita del terzo figlio, decisi di prendere un anno sabbatico; però una volta fui chiamata per una supplenza: quando mi presentai in classe, gli studenti erano pronti a rilassarsi, ma uno di loro bisbigliò agli altri: stiamo zitti, non si tratta di una supplente qualunque, lei è una vera maestra! I bambini hanno sempre avuto un’eccezionale spontaneità».

Molti ex alunni la ricordano ancora...

«Ed io ricordo loro. Quando casualmente li incontro, è come vedere i miei nipoti. Si vuole molto bene ai nipoti, sa?».

(A)titolo link

© RIPRODUZIONE RISERVATA