È stata reggia, villa, setificio, caseificio, granaio, azienda agricola autosufficiente e “convalescenziario” del quinto Corpo d’Armata. durante la prima Guerra mondiale, quando i soldati scavarono trincee nel giardino per difendersi da un attacco che non arrivò mai. Nelle sue stanze (si dice in paese) sono passati Giacomo Puccini e re Umberto I ma - di certo - anche stallieri, operai, tessitrici, contadini, maggiordomi. Villa Litta narra la storia di una comunità intera. Te ne accorgi quando arrivi in paese svincolando dalla Mantovana, a un incrocio nascosto dietro una rotonda dove prima c’era l’incrocio. Imbocchi un viale, segui le surreali indicazioni per il “porto turistico” con tanto di barca a vela (vallo a capire cosa c’entri con la nebbia del Po, non lontano da qui), passi fra le case e la vedi svettare sopra i tetti, massiccia e severa. Sulla facciata si staglia quello che resta dell’Umòn de Vori. Difficile immaginarlo ora ma quello scheletro di ferro mangiato da tempo e umidità era la statua di una figura alata con una falce appoggiata ai piedi. Grazie a un meccanismo collegato all’orologio sottostante, si dice, scandiva il passare delle ore battendo un martello su una campana. Un angelo della morte di tre metri che svettava su una campagna - raccontano le stampe esposte nella villa - fatta di campi regolari, filari d’alberi e canali di irrigazione. Un demonio affacciato su una specie di Eden curato dallo sfiancante lavoro quotidiano di generazioni di contadini. Simbologie andate perse.
A ricevere l’autore di questo articolo e il fotografo Paolo Ribolini è Elisabetta Carini, proprietaria della Villa. È una signora minuta, educata e gentile con un sorriso trattenuto che si allenta solo quando chi scrive le rivolge domande particolarmente insensate («Costa molto mantenere l’edificio?»). Suo nonno Oreste, antiquario di Piacenza, comprò la villa nel 1970 dal precedente proprietario Federico Colombo. Con Oreste c’era il figlio Paolo, padre di Elisabetta. L’idea era di farne una scuola d’arte e di restauro. Sarebbe stato uno sforzo titanico perfino se l’edificio fosse stato nelle condizioni attuali, figuriamoci allora.
«Era un rudere - racconta senza giri di parole Carini -. Il precedente proprietario la usava come cascina. Ci aveva realizzato un allevamento di animali». Quindi polli ovunque, il salone del primo piano usato per stagionare i salami, spazzatura a quintali, i mobili degli sfollati della seconda guerra mondiale che qui avevano vissuto per decenni. Un disastro. Il nonno e il padre di Elisabetta non riescono a mettere in piedi la scuola d’arte (anche se per alcuni anni porteranno nella villa la loro attività di antiquari) però mettono in movimento un lento ma continuo lavoro di restauro.
Lento e spossante, a guardare le dimensioni della struttura: «Dodicimila metri quadrati coperti - riassume Carini -, un cortile d’ingresso di tremila metri, un giardino sul retro di cinquemila e 75 pertiche milanesi di terreno coltivato nei dintorni». Quella che viene chiamata villa Litta (oggi villa Litta Carini, ricordiamolo) è una “piccola Versailles” composta da più edifici. C’è la parte principale, quella nobile, ristrutturata. Ai due lati del cortile d’ingresso si specchiano le ex stalle, oggi appartamenti affittati, e il corpo di guardia e - sull’altro lato - una cappelletta e un edificio (non ristrutturato) con le abitazioni dei contadini , locali vari e perfino due celle. Ci sono quattro cortili: attiguo a quello d’ingresso ce n’è un altro, più esterno, venduto alcuni anni fa. Degli altri due, uno è in corso di sistemazione. L’altro è ancora da sistemare, vi si affaccia un’ala dell’edificio ormai priva di tetto, sostenuta comunque da ponteggi.
«La ristrutturazione non si è mai interrotta, in effetti - spiega Carini - . Ha accelerato alcuni anni, ha rallentato in altri. Già la pura e semplice manutenzione ci occupa 24 ore su 24 per 365 giorni all’anno...».
Nel salone delle feste al primo piano pare ancora di sentire, sotto gli affreschi della volta, risuonare valzer e tintinnio di calici, prima che su quest’angolo di “Belle Époque” lodigiana calasse una cortina di salami appesi a maturare. La parte alta è contornata da una balaustra sulle quali si affacciano quelle che erano le stanze degli ospiti: serviva anche alla servitù per andare da un’ala all’altra dell’edificio senza passare per il salone. Tutto l’interno della parte nobile della Villa - è quasi inutile sottolinearlo - è un gioiello restaurato con cura e arricchito da oggetti d’epoca provenienti dall’attività della famiglia: «Dell’arredo originale niente fu trovato. Peraltro, a quei tempi, a ogni passaggio di mano i vecchi proprietari erano soliti portarsi via tutto, documenti e archivi inclusi. Aggiungeteci i vari usi che furono fatti dell’edificio...». Oggi la Villa ospita anche manifestazioni organizzate dal Comune e mercatini e - per i privati - apre le porte per feste e matrimoni. Un locale della Villa ospita Panpepato, attività avviata da Elisabetta. Si occupa di tutto ciò che c’è attorno a un matrimonio, dalle bomboniere all’allestimento. Da queste attività, e dalle risorse della famiglia, arrivano i soldi per tenere vivo questo gioiello. Qualcosa è arrivato dalla Soprintendenza, anche se si è fatto attendere dodici anni. Uno sforzo titanico. Tanto di cappello.
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