A Cà dell’Acqua lo straordinario allevamento dei Cremaschi

La descrizione non è mia, ma del mio amico Mario Locatelli, l’ultimo dei malghesi, e poeta a sua insaputa, un uomo che, durante le transumanze delle bovine, abituato a richiedere nel passato accoglienza nelle cascine, ha fatto dell’ospitalità la sua prima regola di vita. Ed è stato proprio lui, nel descrivermi la particolarità della cascina Bosco, sita alla frazione Cà dell’Acqua di Borgo San Giovanni, a proporre questa metafora: le oche che la abitano, quando dal laghetto risalgono un pianoro per tornare al fienile, è come se mettessero in moto, con quel biancore del loro piumaggio, la spuma di un’onda, il fresco scintillare di un’interminabile risacca.

Osservando le 1800 oche, prima riunirsi in gruppo, e poi cautamente risalire per tornare al poggio della cascina Bosco, ho giusto provato questa sensazione.

una storia commovente

Sono ospite della famiglia Cremaschi e mi sto smarrendo dentro un tramonto di penetranti suggestioni: dal promontorio si vede la campagna lodigiana distendersi a perdita d’occhio, con larghe chiazze di arbusti che si susseguono ad ampi appezzamenti verdi uniformi, devono essere i campi di granturco, e un cielo che s’ammassa di nubi, screziato in lontananza da un arcobaleno che stenta ancora a prendere forma. C’è vento, finalmente. Refoli d’aria che portano una frescura quantomai desiderata.

So di avere ambedue i pugni serrati, mentre sosto sul poggio: con uno stringo le gioie avute in questo primo semestre dell’anno, il conforto di una moglie dolcissima e di due bambine affettuose; nell’altro, serbo il ricordo di mio padre, scomparso da poco più di un mese, e la malinconia di un’assenza definitiva. Divago per sentimenti perché la cascina Bosco consente questo: trovare le radici del proprio io e fermarsi a riflettere. E poi qui ho ascoltato una storia che mi ha commosso: mi si è annidata nelle corde più intime del cuore e adesso la sera, prima di prendere sonno, la ripasso nei suoi particolari.

Il ceppo più antico dei Cremaschi ha le sue origini nel mondo rurale. Il vecchio che memoria ricordi si chiamava Angelo ed era un contadino che faceva i suoi San Martino nelle cascine delle Bassa.

Suo figlio Mario, nato nel 1915 - e qui è la figura che ha suscitato tutta la mia simpatia - lavorava anch’egli come dipendente agricolo. Era una persona energica e positiva, e un giorno, facendo leva su tutto il proprio coraggio, propose ai fratelli Sante e Giovanni di condurre insieme una minuscola azienda nella zona del Tormo di Crespiatica. Era un passaggio fondamentale e tutta la famiglia Cremaschi ne fu coinvolta. L’intuizione poteva anche essere giusta, ma il periodo infelice: poco dopo l’Italia entrò in guerra, e i maschi di casa Cremaschi partirono per il fronte. Quando Mario rientrò, di quella realtà agricola non era rimasto più nulla. Tornò inevitabilmente a fare il mungitore sotto padrone, dapprima andando alla cascina Buttintrocca di Casalmaiocco, quindi alla corte Pergola di San Martino in Strada.

una corte disabitata

Nel frattempo Mario Cremaschi aveva preso moglie, sposando Margherita Soccini di Crema; lei faceva l’infermiera a Milano e non fu semplice adattarsi ad uno stile di vita assolutamente diverso da quello a cui era abituata, ma per amore di suo marito rinunciò al proprio lavoro e alle comodità che offriva la vita cittadina. La coppia ebbe cinque figli: nel 1955 nacque la primogenita Gianfranca, successivamente Angelo, poi fu la volta di Rosalba, che morì tragicamente ancora bambina durante il periodo di permanenza alla cascina Buttintrocca; nel 1960 nacque Bassano, e due anni dopo l’ultimogenita Maria Lucia detta Mariuccia.

Mario Cremaschi lavorava sodo come mungitore per mantenere la famiglia. L’ultimo suo San Martino lo fece alla cascina Cà dell’Acqua, presso l’omonima frazione di Borgo San Giovanni: fu qui che rimise mano ad un progetto che non aveva mai abbandonato, cioè quello di avere una propria azienda agricola.

Sul limitare di questa campagna vi era la piccola cascinetta Bosco, disabitata da tempo; questa era proprietà del signor Rebecchi di Milano, personaggio austero, che possedeva nel capoluogo lombardo negozi di polleria all’ingrosso. Il terreno circostante alla corte Bosco era gestito dai fratelli Moretti, che effettuavano l’estrazione della ghiaia. Insomma, si trattava di un luogo sperduto e dimenticato, che da tempo aveva perso la memoria della propria vocazione agricola. Nel 1961 si prospettò l’ipotesi di prendere in affitto questa cascina. E Mario Cremaschi avanzò una sua proposta. Qui poteva riannodare quel percorso professionale che aveva perso quando era stato arruolato per la guerra. Ma l’esperienza lo aveva reso ormai un uomo concreto: egli, pur prendendo in affitto la cascina Bosco e andandovi ad abitare nel 1963, non abbandonò il suo lavoro di mungitore.

Terminata la giornata nella stalla del proprio padrone, andava alla cascina Bosco, dove il padrone era lui, e cominciava ad arare e a sistemare i terreni, affidandosi alla forza di un cavallo perché non poteva permettersi di acquistare un trattore.

tori e bovine

Nel giro di una decina d’anni aveva messo su un’azienda di discrete risorse: possedeva una ventina di tori da ingrasso ed una dozzina di bovine per la produzione di carni. Finalmente, giunto alla soglia dei settant’anni, si concesse una vacanza, partendo per il mare con il gruppo dei pensionati di Borgo San Giovanni.

I giorni migliori, però, li viveva alla cascina Bosco, dove si sentiva pienamente realizzato. I risultati avevano premiato la sua forza e la sua tenacia: non era facile accettare di spostarsi in una realtà così impervia, a ridosso del Lambro, un posto che non era davvero gradito a nessuno. Ma quell’ambiente non spaventò affatto il signor Mario. Anzi, lo esaltò. Egli visse qui con autentica gioia, sino alla sua morte, avvenuta il 23 dicembre 2002.

Dei figli, ben tre hanno ereditato la passione per l’agricoltura: Angelo lavora come dipendente in un’azienda agricola di Sant’Angelo Lodigiano; Bassano ha lavorato in un allevamento di suini, e una volta che questo ha chiuso i battenti, ha proseguito l’attività direttamente alla cascina Bosco; dove è approdata anche Mariuccia, che comunque mantiene un impiego alternativo. Identica passione per la terra è stata tramandata anche al nipote del capostipite, un giovane di nome Costanzo Alessandro, figlio della primogenita Gianfranca; il ragazzo, cresciuto alla cascina Bosco, è ora dipendente dell’azienda agricola Baronchelli, sempre nella frazione Cà dell’Acqua.

la svolta di mariuccia

La svolta nella scelta odierna delle attività in azienda l’ha probabilmente impressa Mariuccia. Ella, infatti, nel recente passato lavorava in una ditta che produceva mangimi per animali; così nel 1996, anno tra l’altro in cui i Cremaschi acquistarono la corte, maturò un’idea: avviare uno straordinario allevamento di oche; probabilmente, almeno di queste dimensioni, unico nel Lodigiano.

Sino a qualche tempo addietro alla cascina Bosco transitavano anche ottomila oche all’anno. Adesso l’impegno è stato ridotto. Questi animali arrivano in due momenti: il primo turno si ferma in cascina da maggio ad agosto; e quello successivo da agosto a dicembre. Le ospiti attuali sono arrivate ai primi di maggio, all’età di quaranta giorni. Esse sono nate in Francia e poi sono state acquistate da un’azienda di Pavia: una volta svezzate, sono state condotte alla cascina Bosco, dove hanno trovato un’ampia porzione di territorio a loro dedicata. A vederle transitare se ne percepisce la serenità. Se un’oca sta bene, lo si capisce a colpo d’occhio: dal suo piumaggio, che più è lucido e maggiormente riflette il benessere dell’animale.

La giornata tipo delle oche è di tutto relax: alle sette del mattino lasciano il fienile e si dirigono alla discesa del promontorio, nella zona del laghetto. Qui trovano le mangiatoie presso cui nutrirsi e alberi sotto la cui ombra porsi al riparo. Alle nove della sera intraprendono la strada del ritorno. L’importante è che al fienile trovino la luce accesa in permanenza. Le oche temono il buio: ne restano disorientate, allora vanno all’ammasso, all’impazzata, e le più deboli finiscono sotto alle più forti, magari rimettendoci la vita. La notte si acquietano: chi dorme su una zampa, ma rimanendo in posizione eretta; chi si accovaccia; chi pone la testa sotto un’ala. Ma neanche in quelle ore smettono di chiamarsi con i loro versi striduli ed acuti. Anche il mio amico Giacomo Rossi, sempre esperto di ogni materia agricola, questa volta tace e resta ammirato dai racconti di Mariuccia Cremaschi.

Le oche sono state molto richieste dal mercato, sino al 2004, anno in cui si manifestò la malattia dell’aviaria. Da allora i prezzi di vendita sono scesi e, pur non essendovi più rischi sanitari, non si sono più consolidati ai livelli di un tempo.

Una volta pronte, le oche dell’allevamento della cascina Bosco sono collocate al macello di Gerenzago e qui vendute per la grande distribuzione.

L’attività agricola verte anche sulla coltivazione dei terreni: si produce foraggio, in parte destinato alle oche e nell’eccedenza venduto ad altre aziende agricole. Chi sovrintende a queste attività è Bassano, uomo molto simile al padre: come lui tenace, determinato e silenziosissimo, appassionato degli animali da corte, che cura con grande affetto.

Il vento s’infiltra in ogni angolo della corte: il verso delle oche giunge, dal laghetto poco distante, appena appena attutito. L’arcobaleno resta appeso sul cielo, i colori abbozzati, se ne distinguono solo tre chiaramente. Ripenso alla figura di Mario Cremaschi, mungitore in qualità di dipendente e imprenditore in proprio. Rilascio andare i miei pugni, prima serrati in una morsa. Stendo idealmente la mano: mi sembra di stringere, ruvida e forte, quella di Mario, che fu una grande persona e un uomo vero.

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