Nel nostro dialetto, come peraltro in tutti i dialetti e le lingue del mondo, esistono termini con più significati: come ci hanno insegnato a scuola, vengono chiamati “omonimi”. Conoscerli può aiutare ad evitare equivoci e prevenire situazioni imbarazzanti. Abbiamo già visto, ad esempio, la parola nas, che al significato di ‘nascere’ ne aggiunge altri due, che possiamo accostare, ad esempio, nell’espressione: “pisa el ciar, nas de picà el nas!”, cioè ‘accendi la luce, prima di picchiare il naso!’. Anche il verbo pisà ha più significati: mentre in modo transitivo sta per ‘accendere’, come appunto nella frase precedente, usandolo in modo intransitivo (nella medesima frase basta togliere l’articolo) si trasforma, secondo la tradizione popolare, in un indicatore di buona salute.
L’ambiguità tocca anche altri verbi, come ad esempio parlas: “i se parlun da ses mesi” significa che sono fidanzati da sei mesi, mentre “i se parlun no da ses mesi” (non si parlano da sei mesi) potrebbe rivelare un menage coniugale in crisi profonda; malas: sta per ‘ammalarsi’ ma anche ‘partorire’; purtà sü: qui, al senso letterale si aggiunge quello di ‘fare il funerale’.
La frase “el gh’à la pila”, se riferita ad un giocattolo in mano a un bambino vuol dire che è alimentato con batterie; se si parla invece del padre del bambino che glielo ha regalato, si intende che ha un sacco di soldi. Una condizione che si può anche esprimere con la frase “l’è pien de grana”. Attenti però a non confondere “la grana” con “il” grana, scambiando per un uomo facoltoso un frigorifero colmo del nostro formaggio più pregiato.
Rimaniamo in campo alimentare ricordando che “el m’à dai una feta”, senza specificare l’oggetto, significa “mi ha annoiato con discorsi lunghi e noiosi”. E che il purtügal, quando non si chiamava ancora - come nel dialetto più moderno - arans, poteva essere confuso con l’omonimo paese attraverso il quale questo
frutto venne importato in Europa nel Medioevo. Mentre nella frase “gh’ò dai un catafigh” soltanto la gestualità può far capire se si tratta dell’attrezzo apposito per cogliere i fichi o di un pugno ben assestato.
Fra le espressioni tipiche lodigiane abbiamo anche “fà un ciod”, (‘fare un chiodo’) che in una zona di antica tradizione lattierocasearia e non meccanico-siderurgica sembrerebbe fuori posto. In effetti la frase non va presa alla lettera ma va intesa nel senso traslato di “fermarsi a chiacchierare”. Tantomeno serve un’officina per “fà una tola”, che sta invece per “fare una figuraccia”. Come non occorrono gli attrezzi del falegname ma basta un po’ di disattenzione per “fà un pal”, cioè ‘fare un capitombolo’.
Ancor più sibillina è la frase “i fiöi i en ‘ndai via desades”: si tratterà di ‘ragazzi’ partiti ‘dieci a dieci’, o di ‘figli’ che se ne sono andati ’or ora’? Da escludere invece che si parli di figli partiti dieci per volta, vista la scarsa prolificità delle famiglie lodigiane moderne.
È vero, a Lodi come nel resto d’Italia oggi abbiamo molti più anziani che giovani: non lasciamoci però ingannare sentendo un sessantenne affermare “me suocera l’à gh’à la nona”. Questa “nona”
non è un’arzilla vecchietta nata all’alba dell’unità d’Italia, ma il nome popolare di una malattia, l’encefalite letargica, o malattia del sonno che, apparsa sul finire dell’800, dilagò in forma epidemica in tutto il mondo dopo la prima guerra mondiale.
Quasi cinque milioni di persone ne furono colpite, finché scomparve misteriosamente e improvvisamente come era arrivata.
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