Il nettare santo della vigna dei “Busua”

Con il vino “certificato” dei Bossi si celebrano anche le messe

Battista Bossi e Giacomo Atosti erano due viticoltori di San Colombano al Lambro, entrambi nativi della seconda metà dell’Ottocento. Avevano i vigneti, su in collina, poco distanti l’uno dall’altro. Ma, per quanto si conoscessero bene, non andavano oltre le formalità di rito: buongiorno e buonasera.Le loro due mogli, invece, erano più propense alle chiacchiere: Giuseppina Coldani era la moglie di Battista Bossi e Maddalena Atosti quella di Giacomo Atosti, del quale era fra l’altro cugina. Quantunque le due signore fossero sempre più amiche, i loro consorti continuavano a scrutarsi con legittima diffidenza. In verità, Giacomo Atosti, certe volte, avrebbe voluto attaccare bottone con Battista Bossi; ma quest’ultimo era un uomo timido, quasi scontroso, e non c’era dunque verso di avviare con lui alcuna conversazione. Però un giorno avvenne una circostanza che li obbligò ad andare al di là dei formali saluti: galeotto fu l’amore. Il figlio di Battista Bossi, Giovanni, s’innamorò perdutamente della figlia di Giacomo Atosti: Angela.Al signor Giacomo quell’amore apparve provvidenziale: lui pensava da tempo che se avesse unito i suoi terreni a quelli del vicino Battista sarebbe venuta fuori una società agricola di tutto rispetto, ma non aveva mai avuto occasione di parlargliene. Quel fidanzamento, dunque, giungeva a proposito: infatti, da quel momento, non c’era pranzo e non c’era cena, tra le famiglia dei promessi sposi, in cui Giacomo non lanciasse la proposta a Battista. I due non si misero mai in società, ma i terreni furono unificati dai loro figli, una volta convolati a nozze

Famiglie vicineNel passato, delle due quella più conosciuta era la famiglia Atosti: anzi, Giacomo aveva ereditato il soprannome “Busua” dal padre di sua moglie Maddalena; tanto che, in paese, grazia a questa scumagna, era sorto una specie di stornello che recitava così: «Busua ha la capela (cioè il terreno) con la zappa e la scurbela», dove questa altro non era che una cesta di vimini per la raccolta dell’uva; e questo stornello alludeva alla meticolosità con cui il patriarca degli Atosti ogni giorno si recava a lavorare il proprio appezzamento di terra. La scumagna passò dunque al genero e da questi addirittura al consuocero, tanto che oggi gli ultimi discendenti della famiglia Bossi vengono sempre identificati come i “Busua”, quasi fosse il loro vero cognome.Giovanni Bossi era nato nel 1921 e dal padre Battista aveva preso la timidezza. Nella sua vita si divise tra due impegni: da un lato lavorava come giornaliero alla cascina Bovera di San Colombano, era un ottimo falciatore, apprezzato per la rapidità dei movimenti, e dall’altro si dedicava alle terre del padre e del suocero, dove continuava a coltivare le viti. Egli aveva pure una selezionata clientela, che gli acquistava un numero imprecisato di damigiane. Fra gli acquirenti di maggiore rilievo vi era la famiglia Granata, che si faceva consegnare un carico di damigiane direttamente nella loro abitazione di San Rocco di Dovera: sciur Giovanni stipava il carretto e partiva, tutto orgoglioso, con il proprio mulo.Sciur Giovanni Bossi era un autodidatta, e in quanto tale, qualche errore lo commetteva pure: ma era riflessivo e sapeva riconoscere i propri sbagli, evitando così di ripeterli una seconda volta. Aveva l’esigenza di trarre il maggior profitto dalla propria produzione e così, a volte, pur avendo la consapevolezza che alcune zolle dovessero essere messe a riposo, continuava a coltivarle, tanto da non riuscire ad avere a volte le eccellenze che desiderava. Ma, riguardo alle viti, se ne intendeva, e sapeva capire quando cogliere i grappoli: non la settimana, non il giorno, ma proprio l’ora giusta. Le sue capacità erano dettate dall’esperienza, ma pure dal cuore: era come se le viti gli parlassero, come se lui sapesse capirle.Eppure il periodo della vendemmia lo lasciava tramortito dalla fatica: alla vigilia scherzava sempre con i famigliari, dicendo che l’indomani sarebbe andato a dare uno schiaffone al maresciallo dei carabinieri, così che questi lo metteva in gattabuia per quindici giorni e lui saltava a piè pari le fatiche della raccolta dell’uva. Sciur Giovanni aveva pure preso in affitto altri terreni, ma ben distanti dai primi che conduceva: vi era infatti la convinzione che se grandinasse da una parte, ciò non avvenisse dall’altra, e dunque, anche nella peggiore delle ipotesi, una parte di raccolto la metteva in salvo.

La tradizione della “paja”In quegli anni, per promuovere il prodotto vi era anche una simpatica iniziativa, promossa dallo stesso Comune: le aziende agricole potevano appendere all’ingresso dei loro cortili la “paja” (cioè un drappo di paglia), e quello era il simbolo che lasciava intendere la vendita di beni agricoli; gli agricoltori erano autorizzati ad offrire anche da mangiare, e a casa Bossi Atosti “Busua” si proponevano salame e brasato. Così, tra un piatto e l’altro, oltre a mescere il vino, si suggeriva la bontà della propria produzione, e in quelle occasioni si piazzavano, anche alla spicciola per ogni singolo avventore, una buona quantità di bottiglie. Alle trattative provvedeva la signora Angela, che a differenza del proprio consorte, aveva la parlantina sciolta, ed era immediata e diretta. Giovanni e Angela Bosi ebbero due figli: Francesco, nato nel 1951, testimone di questa storia, presentatomi dal comune amico Giacomo Rossi, e Domenica. Divenendo anziano, con una buona sicurezza alle spalle, sciur Giovanni aveva deciso di abbandonare l’attività di falciatore, dedicandosi esclusivamente ai suoi appezzamenti di terra. D’altra parte i Bossi, oltre alla produzione e al commercio del vino, avevano altri alberi da frutta, e le esigenze a quel tempo erano minori: davvero si era contenti di quello che si aveva senza pretendere di più. Nell’impegno della viticoltura si era affiancato al sciur Giovanni suo figlio Francesco, il quale era però intimorito da un insegnamento molto concreto datogli dal padre: «Cun la tera te mangi no».E a Francesco Bossi, che è un uomo grande e grosso, pure di simpatia, avere i soldi (ma lui si ostina a chiamarli “ceci”) per farsi una famiglia importava, e molto anche. Francesco ha sposato la signora Lidia Ceolotto, le cui origini sono venete, ma che è comunque nativa di Sant’Angelo Lodigiano. Dal matrimonio sono nati tre maschi: Paolo, Stefano, Gabriele.

La fabbrica e l’AtmDeciso ad ascoltare il suggerimento paterno, pur senza mai tralasciare la viticoltura, Francesco Bossi andò per venti anni a lavorare in fabbrica. Poi prese posto all’Azienda Municipalizzata Trasporti di Milano e faceva sempre i turni più pesanti, spesso quelli tardo serali, che gli lasciavano così la possibilità al mattino di dare una mano in collina. Lo stesso in estate, quando lavorava senza sosta nel mese di agosto, così da potere fare le ferie in settembre, allorchè cominciava la vendemmia.Francesco ha uno straordinario e bellissimo ricordo del padre. Lo rievoca quando gli parlava della raccolta dell’uva, e faceva riferimento ai primi acini che si raccoglievano, e poi alla messe dei grappoli, con i chicchi che dovevano essere ben neri e non semplicemente rossicci, e mima un insieme di gesti, che a me pare di poter immaginare le sembianze di sciur Giovanni.Ma similmente al padre anche lui, come sanno fare solo i maestri di cose vere ed autentiche, ha saputo trasmettere ai propri figli la passione per la viticoltura. A proseguire l’impegno è stato Stefano, oggi ventitreenne, ma già imprenditore agricolo ricco di giudizio e di buon senso.

Un agricoltore natoStefano Bossi è proprio nato agricoltore, tanto da ricordare la propria rabbia quando, bambino di sette anni, non riusciva a raggiungere con i piedi i pedali del trattore, mentre lui smaniava di condurlo. Gli piacciono la campagna, i tramonti visti dal promontorio di Regina della Costa, in uno dei punti più alti di San Colombano, e da cui si gode una vista meravigliosa sino ai distanti rilievi piacentini, e persino il razzolare della dozzina di galline che possiede.Su una locandina che promuove la produzione della cantina Bossi, vi è una scritta originale: «Stefano Bossi è persona degna di fiducia e vende vino idoneo alla celebrazione della Messa», e sotto firme ed egide dei vertici di una diocesi. Apprendo così che le curie devono certificare la qualità di un vino prima che questo venga autonomamente acquistato dalle parrocchie per l’officio delle funzioni religiose: alcune comunità di frati di Milano e di Bergamo, una congregazione di monache dell’hinterland milanese si riforniscono da Stefano. Oggi Stefano Bossi conduce quattro ettari e mezzo di vigneto con la produzione di 250 ettolitri di vino, doc bianco e doc rosso, da cui si ricavano 12mila bottiglie l’anno ed un buon quantitativo di damigiane. Non c’è più la promozione della “paja” per la vendita. Stefano Bossi frequenta i mercati di campagna amica promossi da Coldiretti, e durante i week end si sposta nei vari paesi della Lombardia dove si svolgono iniziative e kermesse.Di recente, i libri di contabilità hanno evidenziato un punto di caduta: gli affari dell’anno appena concluso non sono andati benissimo, Stefano è un ragazzo schietto, non ha difficoltà ad ammetterlo: con la crisi, la gente ci pensa a spendere soldi per il vino di qualità. Ma Stefano ha coraggio, sa aspettare che la ruota torni a girare. Nel frattempo, come i grandi uomini, rilancia e rafforza i mezzi meccanici della propria azienda.Il tramonto dalla collina appare stasera ricco di presagi: Stefano e suo padre Francesco lo osservano mentre avvolge i pali su cui poggiano le viti e tutto diventa indistinguibile nell’uniformità del buio; il loro sguardo è rimasto carezzevole sino all’ultimo istante, sino all’ultima vite lì in fondo, quasi ad intuire i futuri germogli dell’uva che si farà, la grinta dei “Busua” ben celata, c’è un tempo per ogni cosa, dopo tutto basta solo saperlo attendere.

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