Rubriche/Cascine
Giovedì 24 Febbraio 2011
Sull’aia il cuore pulsante di Beccalzù
Nella frazione di Casaletto prospera l’omonima corte dei Regazzola
E’ un gioco che mi ha sempre affascinato: sono alla frazione Beccalzù di Casaletto Lodigiano, e affacciato alla finestra della corte che prende il nome dall’omonimo agglomerato, guardo l’abitazione dirimpetto, neanche un metro di strada; eppure, lì di fronte, siamo già nella provincia di Pavia, a Bascapè.
Questo specchio di rimandi, si è da una parte e contemporaneamente da un’altra, mi cattura completamente: il caro Giacomo Rossi, che mi ha accompagnato dalla famiglia Regazzola, propiziandone l’incontro, tossisce, alludendo che è il tempo di cominciare la chiacchierata con i padroni di casa, ma io sono ancora lì, fremente d’interessi: guardo di qui ed è Lodigiano, osservo di lì ed è Pavese, ed improvvisamente mi rivedo bambino, in una Sicilia che ho così amato da privarmene: stavo in spiaggia e scorgevo, di là del mare, la punta più estrema della Calabria, e quella per me, indipendentista per indole, era già un’altra Italia, l’inizio del Continente, il paese da cui era giunta la nonna Elisa, scrittrice della Libertà di Piacenza, amica ed estimatrice di Ada Negri - sentivo raccontare a casa - tutto un altro mondo, Scilla e Cariddi, come adesso Beccalzù tra la campagna delle zolle e quella delle risaie.
il prete “medegon”
La frazione Beccalzù ha origini antiche e una storia senza echi: qui vi ha vissuto sempre gente laboriosa, umile, dedita al lavoro, e la cui età ha spesso sfiorato o superato il secolo di vita. Come è stato approfondito dall’Associazione Comitato Ricerche Storiche di Casaletto Lodigiano, sapientemente diretta da Roberto Smacchia, il toponimo di Beccalzù ha avuto, da parte di vari studiosi, diverse allusioni: è stato infatti detto che potrebbe derivare dall’espressione “bel calzato”, da cui derivò pure il cognome Belcazar. Ma la denominazione “Beccalsù”, così come riportata nelle mappe catastali teresiane, alluderebbe viceversa, ad una condizione di mezzo appunto tra Lodi e Pavia. Però, scomodando i Germanici, l’espressione “Bech” indicherebbe un corso d’acqua tra i campi. E via discorrendo.
A Bascapè come alla frazione Beccalzù è rimasta memorabile nel tempo la figura di don Alberto De Paoli, il prete che officiava messa all’oratorio: egli aveva avuto un grande maestro d’arte nel suo parroco, e pur assecondandone le capacità di studi, alla fine la sua grande passione era stata per la medicina alternativa. Era infatti divenuto “medegon”, specialista nel curare malanni reumatici, gotte, e ipocondrie; la gente accorreva sia dal Lodigiano che dal Milanese perché i suoi intrugli apparivano miracolosi.
Settimanalmente c’era chi si partiva col calesse da Beccalzù per Bascapè, cinque chilometri di dissestate stradine di campagna, per prendere don De Paoli e poi riaccompagnarlo a casa. Quindi, in tempi più recenti, lo si andava a prendere in automobile. Negli ultimi anni il suo posto fu preso da don Luciano Parmigiani. Adesso si celebra soltanto in occasioni solenni: tre, quattro volte l’anno, mentre a maggio si recita settimanalmente il rosario.
Un altro punto di riferimento, a Beccalzù, era rappresentato dall’osteria. L’oste storico fu senz’altro il signor Prina, lodigiano, che oltre a badare al locale, era il camparo della roggia Carpana: la sua precisione nella distribuzione delle acque era perfetta. In osteria gli subentrò il signor Mario, pavese. Quindi una serie di cambi di gestione. Poi per un periodo l’esercizio fu chiuso, mentre oggi vi è una nuova gestione.
un progetto lungimirante
I Regazzola vivono alla cascina Beccalzù dal 1959: sembra per ieri ed è già passato più di mezzo secolo. Il loro ceppo originario è bresciano: proveniva infatti dal paese dalla frazione Acqualunga del Borgo di San Giacomo. Oggi questo è un paesino ridente, meta di villeggiature estive, ma un tempo i residenti si dividevano a fatica i pochi ettari di terra lavorabili.
I Regazzola erano contadini, erano in quattro, tutti salariati agricoli, ed era più facile per loro stringere la cinghia che pensare di fare fortuna. Però al destino da cambiare ci pensavano, e così un giorno, decisero di emigrare.
Nel 1923, Francesco Regazzola, classe 1906, andò a lavorare alla cascina Longara di Carpiano. Conobbe Maria Boselli, nata nel 1912, originaria di Dovera, e la sposò. Visse sotto lo sesso padrone per 27 anni. Mai un problema. Mai una discussione. Aveva, però, un progetto: se solo riusciva a mettere da parte una lira, senza mai fare mancare nulla ai suoi figli, la depositava in banca. Era un uomo di giudizio, con uno spiccato senso per gli affari e una fiducia incrollabile nel domani. I Regazzola ebbero cinque figli: Luigi Domenico, Teresa, Gianna, Elsa e Giovanni.
All’età di 47 anni, Francesco Regazzola decise di spostarsi e, sempre sotto padrone, andò a lavorare alla cascina Trognano di Bascapè. La proprietà era dell’Ente Comunale Assistenza e gli affittuari era i Curti.
il futuro nei maiali
Prima di quel San Martino del 1953, Francesco Regazzola, che era un mungitore molto stimato per competenza ed abnegazione, fece un patto molto chiaro con gli affittuari: sarebbe stato lietissimo di andare sotto alle loro dipendenze, ma alla condizione che gli dessero un piccolo spazio dove poter allevare qualche maiale in proprio. Il signor Francesco, infatti, s’era persuaso che i suini potessero rappresentare una svolta importante per la vita sua e dei suoi famigliari. E poiché aveva per davvero il senso degli affari aveva sfruttato un abile circostanza: una volta, passando da Caselle Lurani, aveva notato una scrofa con i suoi suinetti. S’era fermato allora dall’allevatore e gli aveva domandato che prezzo volesse per acquistare i porcellini con la loro madre. L’allevatore ci pensò e sparò una cifra considerevole, quasi a voler significare che non intendeva privarsene affatto. Francesco Regazzola trangugiò e gli strinse la mano. Non solo: gli anticipò una caparra considerevolissima, dicendo che a fine settimana avrebbe mandato il figliolo, col cavallo ed il carretto a seguito, per ritirare la scrofa ed i suoi suinetti.
Neanche due giorni e l’allevatore s’era già pentito di avere accettato l’affare, ma quella caparra, così cospicua lo frenava: alla fine, la mancata vendita gli si ritorceva pesantemente contro, e fu costretto a cedere gli animali.
Alla cascina Trognano, Francesco Regazzola, allora, prese a dividersi tra il suo impegno di mungitore e la sua nuova attività di allevatore; un fondamentale aiuto lo ricevette dalla moglie, Maria, e dal suocero Antonio Boselli, che prima di allora aveva fatto, per una vita, il cavallante, e alla fine faceva il cocchiere portando in giro col landò i suoi padroni. Maria Boselli fu una figura essenziale nella famiglia Regazzola: oltre a seguire la porcilaia, curava un nutrito gruppo di animali da corte, ricavandone, nelle vendite, il massimo profitto d’economia possibile. Maria fu una donna instancabile, una che non cedeva mai, ma proprio mai, alla fatica.
un nuovo trasloco
La porcilaia crebbe e gli affittuari cominciarono ad interessarsene, tanto da chiedere, visti i buoni rapporti che vi erano sempre stati con i Regazzola, di lasciare loro quella porzione di corte, che avrebbero condotto direttamente insieme a loro parenti, cioè i Papetti che provenivano dalla frazione Fornaci di Cerro al Lambo.
Così, dopo sei anni di permanenza alla cascina Trognano, i Regazzola si trasferirono a Beccalzù. Qui gli affittuari precedenti erano stati due fratelli lodigiani, i Mantegazzi, mentre la proprietà apparteneva al geometra Evaristo Maglio di Melegnano.
Francesco Regazzola, il suocero, la moglie, i figli, si misero tutti a lavorare per migliorare le condizioni della corte: si dava di zappa, a mano, da mane a sera, perché i terreni erano stati tutti destinati nei secoli a marcite, ed erano molto umidi. Francesco Regazzola prese 17 vacche e avviò la stalla; con sè portò anche sei scrofe. L’azienda agricola cominciò gradualmente a crescere. Ma il primogenito, Luigi Domenico, prezioso testimone di questa storia, oltre a lavorare nella corte di famiglia, continuò a fare il dipendente presso alcuni agricoltori della zona. Egli era stato messo in regola con i contributi agricoli sin dai quattordici anni. Alle cinque del mattino, ancora ragazzino, si alzava per andare a strigliare i cavalli e a dar loro da mangiare: così prendeva ventimila lire l’anno in più, fuori busta paga. Poi era diventato un bravissimo trattorista: più che un contadino, un tecnico. Conosceva alla perfezione le varie tecniche di aratura in un momento in cui il passaggio dai buoi ai cavalli alla meccanizzazione creava alcune difficoltà sotto il profilo delle conoscenze e della sperimentazione.
un’azienda modello
Ma quando, nel 1963, papà Francesco morì colpito da infarto, allora, Luigi Domenico si dedicò a tempo pieno all’azienda di famiglia, ampliandola ulteriormente e, nel 1990, acquistandola, con il conforto e il sostegno della moglie Agnese Giacomina Pedrinelli; lei, originaria di Beccalzù e figlia di un piccolo coltivatore diretto, seppe interpretare alla perfezione anche l’umile ruolo della contadina, andando a mungere in stalla quando ve ne fu la necessità.
Oggi in azienda vi sono 160 bovine, di cui 130 in lattazione: il latte viene conferito alla Cooperativa Laudense. In azienda vi è oggi un dipendente indiano, e il lavoro diretto di due figli di Luigi Domenico: Francesco e Paolo. Altri due figli hanno scelto un’altra attività nel settore della panificazione: Cristina e suo marito Pietro panificano, Mauro ha una rivendita di pane.
Il signor Luigi Domenico può essere ben soddisfatto di quanto ha saputo realizzare nella vita. Lo scruto mentre mi racconta delle sue fatiche per passare dalla condizione di salariato a quella di imprenditore agricolo e proprietario di una bella corte. Sarà per il blu del suo maglione e i suoi capelli bianchi, mi sembra rassomigli a un comandante di un peschereccio, come ne conobbi nella mia Sicilia: i suoi occhi, fermi e che s’addolciscono quando i ricordi gli si fanno cari, sono di un verde scuro indefinito, come il fondale più profondo del mare quando il sole scompare dietro il profilo del costone lavico.
Lo preoccupa il futuro del mondo agricolo, che necessita sempre dei contributi statali ed europei per non soccombere stritolato dalla tenaglia dei costi. Ma un bravo comandante sa indicare la rotta: ed allora, come suggerì in un romanzo d’epoca un altro comandante di imbarcazione, non resta che un augurio: attendere e sperare.
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