C’era da aspettarselo. L’iniziativa dell’Invalsi (Istituto Nazionale Valutazione Sistema Istruzione) sta facendo arrabbiare un po’ tutti. «La rivolta di prof e studenti», «Le famiglie protestano e i ragazzi a casa», «Studenti boicottano l’Invalsi», sono solo alcuni dei titoli apparsi in questi giorni a caratteri rimarcati su quasi tutti i quotidiani. Docenti che annunciano il boicottaggio; studenti che annunciano di consegnare i compiti in bianco; genitori che annunciano di non accompagnare i figli a scuola il giorno delle prove. Ma perché tanto timore verso i test di valutazione? Perché una parte di docenti, genitori e studenti li vedono con diffidenza? Innanzitutto è bene chiarire che da quest’anno anche gli studenti delle seconde classi degli istituti superiori, saranno sottoposti a prove di valutazione nazionale su italiano e matematica. Ma evidentemente la reazione va inquadrata in un convincimento culturale che rifiuta un sistema di verifica. Eppure è un sistema che se vissuto con professionalità e condivisione, può rappresentare un’ottima occasione per migliorare il rendimento scolastico e con esso il sistema scuola. Del resto diciamo pure la verità. Non passa giorno senza che non si (s)parli di scuola. E a ben vedere, a parlarne non sono solo scrittori, psicologi, pedagogisti, ma anche giornalisti, e poi politici, sindacalisti, amministratori locali, genitori, semplici massaie. Ne parlano i media, ma di scuola si parla anche nei convegni come in piazza, nei supermercati tra la frutta e la verdura, come al bar tra un cappuccino e una brioche. Fa da sfondo, perché preferita, l’immancabile cronaca negativa che offre uno spaccato dell’altra scuola, quella più chiacchierata, più morbosamente seguita, quella che stuzzica la fantasia di chi ha l’animo compresso, quella che si contrappone alla scuola delle buone pratiche, alla scuola dell’affanno quotidiano, alla scuola che si scopre impotente di fronte ai tanti ragazzi che, sia pur mascherati da un insospettabile portamento composto, sono costretti a vivere prematuramente le conseguenze di certi fallimenti famigliari. E si presentano ai nostri occhi con tanto di atteggiamento adulto, cresciuti in fretta, troppo in fretta, fino a perdere la freschezza della loro età. La cosa che però mi sorprende è che si continua a parlare sempre delle stesse cose: precariato, tagli, stipendi da fame, valutazione, sconfitta della scuola pubblica, disagi di adolescenti, malessere di insegnanti, libri di testo capziosi. E si potrebbe continuare. Come si vede siamo di fronte a una ragnatela di problemi che ciclicamente compaiono, non senza sorpresa, dando la sensazione di essere di fronte a problemi mai risolti. Eppure la scuola, in fin dei conti, si presenta agli occhi dei più come un sistema semplice, ben organizzato, con responsabilità ben definite, giuridicamente articolato in indirizzi, materie, programmi di studio, una scuola finalizzata a preparare le future generazioni per una società che corre e che cambia rapidamente. Ma, allora, se tutto è ben definito, siamo proprio sicuri che sia la scuola ad avere problemi? Che sia la scuola causa del suo stesso male? E se i problemi fossero altrove? Vediamo di analizzare un’altra ipotesi. Uno dei motivi di crisi che attualmente attraversa la scuola è, a mio modo di vedere, la forte resistenza al cambiamento. Queste prove non s’hanno da fare, gridano in tanti. E qui non c’entra la scuola come sistema, ma chi della scuola è diretta espressione, ovvero una parte di docenti, genitori e studenti che si ritrovano uniti in una strana quanto propizia alleanza: boicottare le prove di valutazione. Il perché è presto detto. Non si condivide il tentativo, attraverso la valutazione degli apprendimenti degli alunni, di valutare anche chi agli apprendimenti li deve condurre: e cioè i docenti. E questo, ovviamente, non va giù a tanti insegnanti. Sicuramente la valutazione degli apprendimenti è una questione delicata che sottende a una serie di variabili di natura professionale, sociale, referenziale. In tema di valutazione del proprio operato, però, è sempre meglio preferire la strada dell’autoreferenzialità. Più semplice, più rispondente alle proprie abilità, ma soprattutto più sicura nell’evitare di finire stritolati tra i gangli di un sistema direttamente affidato a processi esterni. Almeno così la pensano in tanti. Eppure bisogna toccare qualche altra corda se si vuole dare un quadro d’assieme senza rischiare di prendersi l’accusa di parzialità. Ora se si condivide il concetto di cambiamento come fatto culturale che va oltre il semplice dato riferito ad un particolare sistema, allora vuol dire che il processo riguarda tutti. E chiarisco. Se la scuola è espressione della società e lavora per preparare le future generazioni della società del domani, affrontare il cambiamento non è, e non può essere considerato, un problema dei soli addetti ai lavori. I docenti si possono opporre, gli studenti pure, i genitori anche, ma la cultura del cambiamento non è un’esclusività concettuale né dei docenti, né dei genitori, né degli studenti. La cultura al cambiamento è di tutta la società. E se la società vive il cambiamento, la scuola non può opporsi, non può porre un freno, anzi la scuola ha il dovere di trovare in sé il percorso in grado di aiutarla a vivere correttamente il cambiamento, per migliorare i processi didattici. Così diventa un atto dovuto e non una scelta subita. Resistere ai processi in atto tendenti a valutare il rendimento scolastico degli studenti, fa parte del Dna dei professionisti della scuola. Allora può capitare che quando un docente oppone resistenza alla valutazione degli apprendimenti degli alunni a lui affidati, non fa che opporre resistenza alla valutazione del proprio operato a cui gli alunni, volenti o nolenti, sono collegati.Difficilmente un docente accetta di essere valutato, perché difficilmente un docente arriverà ad ammettere che la scuola è parte integrante di un più vasto sistema sociale con il quale deve interagire nella massima trasparenza e disponibilità. E’ bene sottolineare che la scuola è solo un anello della complessa catena sociale e come tale è destinata a subire accelerazioni a cui continuamente l’intero sistema sociale è sottoposto. E allora se cambia la società, non può non cambiare la scuola.
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