6 maggio 1975, esattamente 40 anni fa. A Vienna muore uno dei più indomiti avversari del regime comunista, l’ormai anziano ma ancora vivacissimo cardinale Josef Mindszenty, primate d’Ungheria da quando Papa Pio XII subito dopo la fine della guerra lo scelse a capo di quell’antica chiesa europea, fondata dal Re e Santo Stefano nell’anno 1000.Una vita eccezionale, spesa al pari di altri contemporanei arcivescovi delle chiese dell’Est Europa nel ‘900, in strenua difesa della fede e della dignità dei rispettivi popoli, duramente colpiti nell’animo, prima ancora che nella concretezza dell’esistenza, dai terribili regimi, nazista prima e comunista poi. Grandi nomi, ai più ancora oggi ignoti, che si stagliano luminosi, insieme a centinaia di sacerdoti e laici meno noti, nelle vicende drammatiche del dopoguerra est-europeo: Stefan Wyszinsky in Polonia, Josef Beran in Cecoslovacchia, Alojzije Stepinac in Croazia, Eugenio Bossilkov in Bulgaria tutti poi proclamati beati, in profumo di santità. Decenni di enormi torture fisiche e psicologiche, di esili patiti nei propri Paesi, di privazioni e carcere subito in seguito a processi farsa ad opera di oscuri autocrati comunisti manovrati da Mosca. Nazioni stremate ed impoverite, intere generazioni di cristiani colpiti nell’onore, perseguitati, uccisi. Il cardinale ungherese, di cui oggi si ricorda la morte, fu un fierissimo lottatore, l’alfiere della libertà dei fedeli di fronte alla follia di un’ideologia devastante che per decenni tenne in scacco milioni di persone, privandole di diritti elementari e naturali tra i quali, appunto, quello di continuare a professare privatamente e pubblicamente la fede cristiana e permeare di essa la vita familiare, le relazioni sociali, l’istruzione scolastica, le scelte politiche. Mindszenty fu uomo di carattere e convinzioni saldissime, integerrimo nell’opposizione al regime: dopo otto anni di carcere in cui si ammalò di tubercolosi, visse per oltre quindici anni esiliato in patria, all’interno dell’ambasciata americana a Budapest, ospite tanto illustre quanto scomodo e indesiderato. Definito ‘provocatore’, ‘nemico del popolo’, ‘criminale sobillatore’ dai governi comunisti che avevano preso con violenza il potere nel 1956, non smise mai di far sentire alta la sua voce, anche dopo la sua ‘liberazione’ dall’ambasciata e l’approdo a Roma nel 1971, grazie ad un incessante lavoro diplomatico della Santa Sede e degli Stati Uniti. La sua croce, dopo tanto calvario, giunse infine quando Papa Paolo VI gli impose nel 1973, non senza grandi sofferenze per entrambi, la pesante rinuncia al titolo di Primate d’Ungheria, allo scopo di favorire i necessari accordi col governo di Budapest e consentire così la rinascita, seppur limitata, della vita religiosa nelle parrocchie, famiglie e associazioni cristiane di quella tormentata nazione. Furono pagine complesse dell’ Ostpolitik vaticana tanto abilmente tessuta dal cardinal Agostino Casaroli, col quale spesso l’indomito Mindszenty ebbe scontri ed incomprensioni. Ma fu lo stesso Casaroli, ammirato da tanta fede e dal coraggio che aveva conosciuto nell’uomo così provato dalle vicende del suo popolo, che scrivendo le sue memorie lo ricorda addirittura come una delle più grandi personalità del suo tempo. Chiese di martiri, allora nell’Est europeo ed oggi altrove, fedeli fino in fondo, fino all’effusione del sangue - e tanto ne scorse in quelle terre. Non smette ogni giorno Papa Francesco di ricordarlo a tutti, credenti o meno.È un peccato, e fa pensare, che queste eredità preziose siano così poco considerate nei libri di storia su cui i giovani formano le proprie competenze ed accedono, da cittadini resi liberi grazie anche a quei grandi testimoni, all’Europa che festeggiamo in queste giornate di maggio.
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