Rubriche/StorieImmigrati
Mercoledì 29 Maggio 2013
Evelina fa la badante per dare un futuro ai suoi due bambini
Evelina è una donna minuta, con gli occhi neri e profondi, un velo di tristezza intorno. La sua vita procede serena fino al black-out, il giorno in cui scopre il marito in compagnia di un’altra donna. «Avrei voluto che restasse con noi, ma lui ha scelto l’altra famiglia».Di punto in bianco, Evelina si trova costretta a provvedere da sola alle esigenze dei propri figli, con un lavoro part-time in un fast-food cittadino. Bastano pochi mesi per rendersi conto che l’impresa è impossibile. Da lì alla scelta di emigrare, il passo è breve.Oggi, tre anni dopo la sua partenza, tutto si è appianato: i soldi finalmente bastano, i debiti sono saldati, i ragazzi possono studiare, la crisi è passata. È un sacrificio sensato, quello di Evelina, che la vedrà, per il bene di tutti, da sola in Italia per i prossimi dieci anni.Lei non è italiana, giusto? Ha qualche minuto da dedicarmi per le storie di immigrati del Cittadino?«Sì, qualche minuto sì. Non sono italiana, hai detto bene, vengo dall’Ecuador».
Sei d’accordo se ci diamo del tu?«D’accordissimo. Ma cosa vuoi sapere esattamente?».
Voglio conoscere la tua storia.«Ah. La mia storia è decisamente lunga, anche se ho solo trentadue anni. Potremmo restare qui dei giorni a raccontarla».
Tu inizia, vedrai che ce la facciamo.«Va bene. Ho solo “un’ora d’aria”, come la chiamo io, ma vediamo di farcela. Allora, ti dicevo che ho trentadue anni. Mi trovo in Italia da tre. Non è molto che sono qui».
Cosa facevi prima di partire?«Qualche anno prima di partire ero sposata, avevo e ho tuttora due figli, e lavoravo in un centro commerciale della capitale».
Di cosa ti occupavi?«Fast-food, ero al piano degli alimentari. Sai che al fast-food si fa di tutto, ho visto che anche qui è la stessa cosa. Io ero spesso in cassa e ogni tanto preparavo gli hamburger. Lavoravo a turni, visto che il centro commerciale in alcuni giorni era aperto fino a sera. Praticamente il mio era una sorta di part-time un po’ atipico, che mi consentiva di avere uno stipendio, seppur miserissimo, e di prendermi cura dei miei due figli».
E tuo marito?«Mio marito faceva l’operaio in una ditta che produceva quadri elettrici o cose del genere. Non ho mai capito esattamente a cosa servissero i loro prodotti. Comunque, andava tutto abbastanza bene. Certo, i soldi non erano tanti, anzi, c’era spesso da tirare la cinghia. È inutile che ti faccia il confronto con l’euro, perché non ha senso visto che il costo della vita è diverso».
Certo.«Posso dirti però che i soldi ci bastavano per vitto, alloggio, bollette ed esigenze dei ragazzi. Ogni tanto non bastavano nemmeno, allora erano guai: se non ci sono non ci sono, non è che li tiri fuori come un coniglio dal cilindro».
Eravate sereni?«Abbastanza, o almeno così credevo. È vero, la nostra vita era sempre una routine, ma io ero tutto sommato felice. I bambini erano bravi a scuola, due ragazzini intelligentissimi, il lavoro non mi dispiaceva, si andava avanti, senza slanci ma apparentemente anche senza ombre».
Apparentemente?«Sì, apparentemente, e posso dirlo forte, perché un giorno scopro che non solo mio marito ha un’altra donna, ma che questa signora aspetta un bambino. È stata come una doccia fredda».
Come sei venuta a saperlo?«L’ho visto, con i miei occhi, mentre rientravo prima dal lavoro perché non ero stata bene. Lo so, sembra la trama di un film. Comunque, ero su un taxi collettivo, che prendevo tutti i giorni perché il fast-food era decisamente distante da casa mia, ferma al semaforo, quand’ecco che lo noto. O, meglio, noto prima il pancione di lei. “Sarà una collega, un’amica”, mi dico. Ma stavano mano nella mano, la loro intimità era inequivocabile».
Poi cosa è successo?«Al momento nulla, non potevo scendere così, di punto in bianco, dal taxi, e tra l’altro stavo davvero male. Arrivo a casa, mi metto a letto e poi lo sento rientrare come sempre, con i bambini. Non volevo alzare un polverone davanti a loro. Non ci crederai, ma ci ho dormito su. Il giorno dopo, a mente fredda, ho chiesto delucidazioni».
Cosa ti ha risposto?«Che stava per dirmi tutto, che era solo questione di giorni, che gli dispiaceva moltissimo, con me non era felice e le solite cose. Io avrei voluto che restasse comunque, per il bene dei bambini e della famiglia. Invece da lì a due giorni era a casa della compagna, trasferito definitivamente. Mi lasciava con le bollette da pagare, l’affitto, due bambini da crescere e una grande amarezza dentro. Da sola non potevo farcela».
Ma non ti riconosceva mensilmente qualcosa?«Aveva una nuova famiglia da mantenere, visto che la compagna non lavorava. Mi mandava ogni tanto un po’ di denaro per le spese più impellenti, ma senza continuità. Nel giro di tre mesi ero a casa dei miei genitori, disperata. Un bel colpo, sentito anche dai bambini, che hanno visto in poche settimane la loro vita stravolgersi completamente».
Eh sì.«Passano i mesi, io continuo a lavorare, vivendo ancora più lontana dal fast-food quindi cono costi maggiori per il viaggio, ma la situazione è abbastanza tragica. A quel punto, circa sei mesi dopo, mi rendo conto che da sola non posso farcela. Sai cosa intendo?».
In che senso?«Nel senso che non è facile far capire a una persona come si sente una madre quando si rende conto di non poter provvedere alle esigenze dei propri figli e non avere alternativa. Davanti ai tuoi occhi c’è solo il buio più nero e la sensazione che la situazione non cambierà mai. Mi sentivo terribilmente giù di morale, nonostante le parole incoraggianti di mia sorella e di mia madre. Poi una sera, forse vedendomi così sofferente, mia mamma mi dice: “Evelina, dovresti sentire tua cugina Agnese. Magari può aiutarti”. Premetto che non sentivo mia cugina Agnese da almeno dieci anni, manco più ci pensavo ad Agnese. Si trovava in Italia, faceva la badante, non rientrava in Ecuador da una vita, ma tutti dicevano che era stata la salvezza della sua famiglia».
Perché?«Perché ne aveva cambiato le sorti, grazie al suo lavoro. Insomma, chiamo Agnese e lei mi dice: “Ultimamente le cose qui non vanno benissimo, ma puoi sempre tentare, sei una ragazza in gamba. Ti presto io i soldi”. Sono partita tre anni fa, con la mia valigia e una sofferenza atroce per il fatto di aver lasciato i miei figli, otto e dieci anni. Da allora non torno a casa. Ma ho davvero fatto felici tutti».
Lavori anche tu come badante?«Esatto. E grazie al mio lavoro i ragazzi possono studiare tranquillamente e non preoccuparsi d’altro, abbiamo comprato un terreno su cui costruirò una casetta per noi, mia mamma e mio papà se la passano decisamente meglio. Insomma, tutti sono più felici».
Tranne te?«Io mi sacrifico, per la loro felicità».
Quando tornerai a casa?«Vorrei rientrare per Natale, sto mettendo via i soldi. Non vedo l’ora di riabbracciare i miei bambini. Scusa se mi commuovo».
Scherzi? Ti capisco.«Non vedo l’ora. Se la signora che seguo me lo consente, mi fermo tre settimane, altrimenti solo due. Poi per il futuro si vedrà. Io sicuramente resterò in Italia ancora una decina d’anni, e altrettanto sicuramente tornerò in patria, prima o poi. Con i miei figli sarà una lunga lontananza, lo so. Ma una vocina dentro di me continua a ripetermi: “Tranquilla, Evelina, ne vale la pena”».
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