L’aeroplano di cui non ho più parlato a nessuno

Un racconto che parla di un furto, di un amico e di una festa di compleanno

Una volta sono stato bambino. Quando ero bambino, non avevo tante occasioni di uscire di casa, perché avevo una mamma che mi voleva proteggere da tutto, anche dal divertimento. Pensate che una volta, quando andavo al centro estivo, ho insistito per andare in bicicletta come tutti gli altri miei amici: erano solo pochi metri, perché dovevo andare in macchina con la mamma e non in bici come i ragazzi più ammirati di tutti. Beh, sono uscito con la mia bicicletta, e la mia mamma cosa ha fatto? Mi ha seguito per tutta la strada con la macchina! Io cercavo di andare più forte per seminarla, e lei mi stava accanto, tutto il tempo, e quando siamo arrivati a destinazione, ha tirato giù il finestrino e mi ha salutato. Che vergogna!

Forse è per questo che poi, crescendo, ho iniziato ad amare così tanto lo stare all’aperto e ora non vorrei stare mai in casa: tante cose ci lasciano un segno più grande di quel che sembri, anche se i genitori non se ne accorgono. Comunque, torniamo a quando ero bambino, perché la storia che voglio raccontarvi non c’entra niente con la bicicletta. C’entra con il mio amico Umberto (non è un nome inventato, si chiama davvero così ancora oggi), che aveva mille giochi, ma voi non avete idea di quanti giochi avesse. Aveva tantissimi giochi più di tutti gli altri, e non se li teneva a casa sua, ma li portava anche a scuola per farli vedere a tutti. Io avevo una macchinina, lui ne aveva tre, e tutte più belle della mia. Io avevo un aquilone che volava tutto storto (quando volava, perché in realtà non è che si sia mai davvero alzato), lui aveva un aquilone acrobatico super professionale che faceva invidia agli aerei veri. Insomma, insopportabile. Un giorno, se ne viene a scuola con dei piccoli aeroplani caccia militari, tipo modellini ma piccoli piccoli: non so come si chiamano, ma andavano di moda a quei tempi. Lui gioca, ci fa vedere sti micro aeroplani bellissimi mimetici tutti luccicanti e niente, quando Umberto non guarda, me ne ficco uno in tasca e faccio finta di niente. Zitto come un pesce, tanto ne ha cinque o sei lui, non se ne accorgerà nemmeno.

Torno a casa e sento la tasca che mi scotta, sono agitatissimo, è come se avessi un tesoro in tasca che continuo a sentire con le dita ma non riesco nemmeno a tirarlo fuori perché mi vergogno, ho paura, metti che qualcuno mi vede. Insomma, mi sale un senso di colpa che mi sento un verme. Dico tutto alla mamma, perché talvolta raccontando le scemenze che facciamo pensiamo in qualche modo di scamparla, ci sentiamo meno in colpa e ci togliamo un peso. Mi ha sgridato, la mamma, certo, ma non è stato quello il problema. Il problema è che la storia non è finita con la sgridata: la mamma mi ha detto che avrei dovuto raccontare tutto a Umberto, e chiedergli scusa. Ahi.

Il giorno dopo, con il mio (scusate, il suo!) aeroplanino in tasca, sono andato al banco di Umberto. Avevo capito che avevo sbagliato, ma ho pensato che avrei potuto lasciargli il modellino nell’astuccio, fare finta di niente, lui l’avrebbe ritrovato e avrebbe pensato di averlo messo nel posto sbagliato. Problema risolto. No, aveva ragione la mamma, dovevo dire la verità. Lui mi ha guardato, io l’ho guardato e ho tirato fuori l’aeroplanino, prima di dire la cosa più stupida che potessi dire: «Scusa, ieri pomeriggio mi è scivolato in tasca, volevo ridartelo».

Non so se sono arrossito (credo di sì), so che il suo sguardo tonnesco mi ha fatto capire che aveva capito tutto, ma non ha insistito e non mi ha fatto sentire troppo in colpa. Ha detto solo «Grazie Grazie» con quella sua vocetta acuta da ranocchio lessato che ti fa odiare la lettera “R”.

Ci ho messo una pietra sopra, oppure no, visto che dopo venticinque anni sono ancora qui a raccontare la storia a voi, e mi ricordo di quell’aeroplanino come se l’avessi davanti agli occhi. Fatto sta che, passati alcuni mesi dallo spiacevole episodio, mi sono trovato a compiere gli anni. Per la prima volta, ho insistito con la mamma: voglio fare una festa. Ma tipo una mega festa a casa, con panini, bibite, regali e tutto. Non ci crederete, la mamma ha detto di sì, forse perché finché stavo in casa sotto controllo a lei andava bene, e così abbiamo organizzato tutto. Abbiamo preso le cose da mangiare, le cose da bere, la tovaglia di carta per metterle sopra, e ho preparato anche gli inviti. Dei bigliettini semplici eh, che ho distribuito a tutti i miei migliori amici per invitarli alla festa. Solo agli amici maschi ovviamente, perché - pensate che stupidi che eravamo - maschi e femmine all’epoca non erano amici tra di loro. Allora ho invitato Mirco V., Federico R. e Francesco P., Luca G., insomma quelli con cui andavo super d’accordo, e poi ovviamente anche Umberto...

Che felicità, il giorno della festa era arrivato. Al pomeriggio prima di uscire ho ricordato a tutti l’appuntamento: «Alle cinque venite da me, mi raccomando, è tutto pronto».

Sono tornato a casa, non stavo più nella pelle, guardavo quell’orrendo orologio nero che c’era in cucina, una specie di lavagna nera con il pendolo sotto e i numeri romani: quattro e quaranta, quattro e cinquanta, quattro e cinquantacinque, quattro e cinquantasette, alle cinque in punto suona il campanello. Non vi dico di indovinare: era lui, era Umberto. Suo nonno l’ha portato puntualissimo, con tanto di regalo e con il suo timido e acutissimo «Ciao Federrrico».

E vi dico di più: quel giorno, arrivò soltanto Umberto e ci siamo pure divertiti. Degli altri amicissimi, nessuno si è presentato, soltanto Umberto, con il suo regalo (che non era un aeroplanino) e con la sua amicizia che poi, in qualche modo, è durata per tanti anni finché se ne è andato a vivere lontano da qui.

Dell’aeroplanino non abbiamo mai più parlato, non credo nemmeno che Umberto se ne ricordi ancora, e io in qualche modo devo trovare un modo per chiudere questa storia. Potrei chiuderla dicendo che gli altri compagni di classe erano dei cafoni maleducati e che avrei voluto piangere e non parlare più a nessuno di loro, oppure posso dire che la sincerità, anche se ci fa vergognare terribilmente, è l’unica base per una solida amicizia, che vale più di un aeroplanino.

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