Cronaca / Basso Lodigiano
Lunedì 01 Aprile 2024
«Il gorgonzola e il granone sono eccellenze lodigiane»
Giulio Castelvecchio, 84 anni, è stato rinomato direttore di sala nel mondo e continua a difendere a spada tratta la cucina del nostro territorio
Giulio Castelvecchio, malerino, è un esperto di cibi. Ha fatto, per decenni, il direttore di sala in rinomati alberghi, nel mondo; è stato anche, agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, il direttore del ristorante Peck, a Milano. Ha lavorato per il Savini.
Apre una cartella piena di ritagli di articoli di giornali, ma spiccano pure due schizzi ritratto che lo raffigurano: uno glielo fece Giuseppe Novello, l’altro Gianni Brera. Una recensione, in cui è citata la sua competenza, è firmata dal compianto giornalista Gianni Mura, un maestro.
Adesso ha 84 anni, ma sembra costantemente sulla breccia. So che non tornerà in pista, ma avrebbe ancora molto da insegnare. Si stupisce quando gli dico che, nella ristorazione, il Lodigiano arranca nelle classifiche nazionali: “Ma è sicuro di quello che mi sta dicendo? Vedo nei giovani chef molta qualità…”
Certo che ne sono sicuro, seppure a malincuore.
“Non me ne capacito: il gorgonzola ed il granone sono due eccellenze, ce le invidiano da tutte le parti. Forse manca solo un po’ di fortuna.”
In che senso?
“Tutti parlano della cucina piacentina: ma a me pare che offra sempre le stesse cose. Però è vero che noi qualcosa abbiamo perso. Prenda Maleo: qui avevamo due ristoranti rinomatissimi. Ne è rimasto uno soltanto, adesso.”
So che lei era amico di Franco Colombani dell’albergo il Sole. Vi è capitato di lavorare anche insieme?
“No, non abbiamo mai lavorato insieme; ma dove c’ero io, lui arrivava. Era un personaggio straordinario.”
Cosa ricorda in particolare di lui?
“Era studente in Ingegneria a Pisa. Gli mancavano due esami per laurearsi, ma prese questo locale a Maleo e smise di studiare. Inizialmente si appoggiò alla mamma, la sciura Rina, Caterina Marchesi. Mi ricordo che con la vespa Franco andava a Pisa per prendere le costate.”
Era così bravo come dicono?
“Lo divenne con il tempo, e la sua lezione è stata dimenticata in fretta. Il suo segreto era l’umiltà. Aveva delle idee, ma non snobbava di andare in una cascina per chiedere ad una nonna come cucinava il suo piatto. Non era da tutti.”
Lei ha avuto una vita affascinante, Giulio. La ripercorriamo per i più giovani, le va?
“Dopo la guerra, finita la V elementare, sono andato a lavorare nell’edilizia, avevo undici anni.”
La prendiamo proprio da lontano!
“Da Maleo raggiungevo Pizzighettone: al carcere, stavano costruendo la villa del direttore. Avevo la mia schiscetta, ma all’ora di pranzo la pietanza era fredda. Allora il capo cantiere mi disse: guarda, lì di fronte c’è l’albergo Osio, tu sei poco più che un bambino, vedrai che se chiedi di riscaldarla non ti fanno problemi.”
Andò?
“Certo. Un giorno. Un secondo giorno. Insomma, fui accolto bene. Tanto che la signora mi disse: se vieni qui a lavorare la domenica ti do da mangiare gratis per tutta la settimana! Altro che edilizia, lei capii immediatamente che il mio posto era in sala.”
Rimase dunque nel settore?
“Sì, cominciai a lavorare nei locali della zona. Sempre la signora dell’albergo mi propose di andare al Bar Giardino di Codogno. Poi andai al Bar Italia di Maleo. Quindi al Bar Casino di Codogno, dove nel locale superiore si ballava, ma in quello a piano terra c’era il servizio bar. Lì un signore mi nota e mi dice di avere un amico a Milano a cui segnalarmi.”
Approdò dunque a Milano?
“Sì, andai a lavorare al Bar Tantalo. Poco dopo fui preso per lavorare al Savini. La mia vera carriera comincia lì.”
Vi rimase a lungo?
“Inizialmente no. Anzi un giorno il commendatore Angelo Pozzi mi dice: devi andare a lavorare per un periodo all’estero. Io avevo conosciuto il parigino George Maren, direttore generale del Plaza Athénéé, e fui assunto come comìs: era a Parigi un albergo prestigioso, frequentato dai Kennedy e dallo scia di Persia.”
Poi cosa accade?
“Il direttore generale mi chiese di andare nella foresta di Fontainebleau, all’Hotel Bas Breau, un importante albergo in una località frequentata dai grandi artisti. Dovevo fermarmi solo 15 giorni, ma quel luogo mi piaceva proprio tanto. Qui conobbi l’imperatore del Giappone ed altre figure straordinarie. Poi il direttore generale mi volle indietro a Parigi e mi promosse al ruolo di chef de rang.”
Mise radici?
“Macchè. Il passaggio successivo fu quello essere inviato in Inghilterra, come maitre, al Gipsy Hill fi Exeter, poco prima della Coronovaglia. Quindi ritornai in Francia. Sino al 1968. Quando feci un incontro importante.”
Cioè?
“Conobbi il direttore generale del Beverly Wilshire, albergo di Los Angeles, California, 1000 dipendenti, un appartamento esclusivo tutto per me: il mio compito era quello di assistente del direttore generale, con l’incarico di sovraintendere al front desk, cioè dovevo assistere i clienti, fare sì che si trovassero a proprio agio.”
Bella l’America?
“In verità non è che mi piacesse molto. Così sono rientrato in Francia. Sino al 1974. Un giorno da Milano viene il commendatore Angelo Pozzi e mi dice: Nani, ti ho mandato via per un anno, e ne hai fatti passare 14, adesso si torna a casa.”
E cosa fece una volta tornato a Milano?
“Mi fu dato il ruolo di maitre al Savini, ma poi raggiunsi l’apice: fui nominato direttore e da lì cominciai ad avere stretti contatti con la cucina. Fu un bel periodo. Un giorno mio amico mi dice: Giulio, ci sarebbero i proprietari del Peck di Milano che vorrebbero conoscerti. Vengono a Maleo, giusto per incontrati. Erano i fratelli Stoppani.”
Ma cosa volevano da lei quelli del Peck?
“Mi dicono che oltre alla gastronomia vorrebbero aprire pure un ristorante. Così comincio questa nuova avventura. Era il 1983. La cucina era quella tradizionale: ossobuco, costolette, risotto. La gente a quel tempo voleva mangiare questo.”
Lei che ha girato il mondo, dov’è che si mangia meglio?
“In Inghilterra se togli l’agnello, cos’altro hai? In America, hanno la carne rossa che è buonissima, e lì si fermano. Cinquant’anni fa la Francia c’era superiore, ma oggi si è fermata. E’ l’Italia il posto dove si mangia meglio, la nostra cucina mediterranea è ineguagliabile.”
E al Savini come si mangiava ai suoi tempi?
“Come locale, quello era il top. Ma il menù non era granchè vario: aveva giusto la nomea, e la gente andava. Adesso gli chef si sono evoluti, contano la qualità e l’innovazione, avere idee. Ricordo che al Peck presi uno chef dalla Carnia, Fulvio De Santa, bravissimo, e conquistammo una stella Michelin.”
Ma lei che rapporto aveva con la cucina?
“Da direttore di sala fondamentale. Dovevo per forza occuparmene. Avevo, come suole dirsi, voce in capitolo.”
Facciamo che ce l’abbia anche adesso. Confezioniamo un menu d’oggi giorno. Magari poi chiediamo il copyright.
“Devo assecondarla?”
Non ha altra scelta.
“Allora, partiamo dagli antipasti. Noi abbiamo dei buoni salumi, ma punterei tutto sul culatello. Poi, una bella terrina di lumache in umido. Non serve appesantirsi, quindi passerei al primo.”
Piatto del giorno?
“Un risotto tradizionale ai pistilli di zafferano, vedrà che poi chiede il bis.”
Per secondo cosa c’è?
“Brasato con polenta, accompagnato da un bel bicchiere di Barbaresco oppure di Barolo. Salvo che non voglia un bollito, perché anche quella sarebbe un’ottima scelta. Infine, una selezione di formaggi con mostarda, anche se è una tradizione cremonese.”
Il dolce lo prendiamo?
“Certo, direi quello delle meraviglie: una sabbiosa con crema di mascarpone.”
Non sono convinto sui vini, abbiamo alternative?
“Dipende, caro amico mio, da quanto vuole spendere. Sa che io ho avuto dei sommelier, come allievi, che sono diventati campioni del mondo in questo delicato ruolo? La Francia sui vini ha qualche secolo di vantaggio questa volta, ma noi abbiamo qualità differenti e maggiori diversità.”
Qual è il suo vino preferito?
“Il Sassicaia, oppure il Solaia. Poi l’Amarone, e, appunto, Barolo e Barbaresco. Vuole per caso assaggiare un bicchiere?”
No grazie, poi devo rimettermi macchina.
“Allora porti via questo salamino. Lo annusi, lo gusti. Lentamente. Poi mi dirà.”
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