Impossibile riproporre il Granone di una volta, è scomparso

Paolo Tarenzi è un grande appassionato di storia culinaria del territorio

Il lodigiano Paolo Tarenzi mi richiama uno di quei lettori di libri che, più che le pagine armoniose di un testo, ama invece, soffermandovisi lungamente, le note minuscole, quelle scritte fittamente, dense e minuziose.

Esperto di ingegneria, nel settore petrolchimico, ha una vastissima cultura enogastronomica, ma anche a questa è arrivato per vie traverse, anzi… sotterranee: «Nel 2004 sono entrato a fare parte dell’associazione Lodi Murata e da qui si è sviluppata la mia passione per la cucina».

Perdonami, ma non comprendo il nesso

«Avevo partecipato alla prima conferenza pubblica, arrivandovi con grande scetticismo: invece ne fui folgorato e mi proposi per dare una mano per i rilievi e la mappatura tridimensionale degli ambienti, rispetto alla quale ho una certa competenza. Lì ho compreso che c’è una storia fatta di date ed eventi, ma ve n’è pure un’altra costituita da piccoli dettagli: tutti i passaggi storici, siano essi economici, sociali, culturali, nascono sempre dal basso, diciamo pure dalla condizione umana e complessiva delle persone».

E quindi?

«L’ottanta per cento della nostra popolazione, almeno agli inizi del Novecento, era di origine contadina: gli eventi storici sono passati attraverso di loro, le loro condizioni. E persino da cosa mettevano sul piatto».

E com’era la tavola lodigiana?

«La domanda è sbagliata, risente di un approccio culturale fuorviante».

Perché?

«A cosa serve codificare un piatto, o anche due, oppure tre? Per parlare di cucina locale - che ha un senso solo a livello regionale, se non macroregionale - occorrono molti e molti più piatti. Un’eccezione potremmo farla per quella bolognese o per quella napoletana, che sono molto ricche di offerte. Ma posso parlare di cucina piacentina solo perché lì hanno i pisarei, o di cucina catanese solo perché lì ci sono i ricci di mare?».

Mi stai distruggendo una mitologia: non esisterebbero quindi le tradizioni locali relativamente alle pietanze?

«Non è questo il mio intento, bensì quello di un allargamento delle competenze culinarie. Hai presente quelle piccole sfere di vetro con dentro la sagoma di una renna in miniatura, dove se le capovolgi gira la neve, e poi tutto torna immobile? Ecco, bisogna assolutamente evitare che la cucina diventi ferma, stantia, perché al contrario è sempre stata frutto di contaminazioni culturali».

Capisco cosa intendi dire…

«Aspetta: il pensiero non è mio, ma del professore Massimo Montanari e del professore Alberto Grandi, sto parlando di luminari in fatto di cucina».

Ma non c’è così il rischio di una cucina non identitaria?

«Le cucine chiuse non hanno senso. Certo, contano la densità di un territorio e cosa offre questo: sapere individuare il meglio. Ma posso assicurarti che quando una popolazione entra in contatto con un nuovo ingrediente, che apprezza, abbandona il precedente, e si rivolge esclusivamente a quello nuovo. Se andiamo indietro nella storia fu così col mais, e fu così col pomodoro. La pasta, per intenderci, prima era fatta con burro, parmigiano, zucchero e cannella. Qualche ingrediente ha vinto, qualche altro ha perso. I gusti cambiano».

Oppongo il diritto alla italianità: la pasta non ce la toglie nessuno!

«Veramente proprio la pasta l’abbiamo importata dagli arabi, e il primo pomodoro, visto che ne abbiamo accennato, è di origine americana. Dalle Americhe abbiamo pure importato il tacchino, che sostituì il pavone usato da noi in epoca rinascimentale come piatto forte».

Ai percorsi enogastronomici si è abbinato pure un progetto legato al turismo, così crolla tutto!

«Ma quello è relativo alla gita fuori porta. Se parliamo di turismo, tu pretenderesti che un americano - inteso come turista in senso lato - percorra migliaia di km solo per apprezzare un’apparente diversità delle tavole locali? O punteresti ad una cucina italiana, riconoscibile in tutto il paese, certo d’eccellenza, magari caratterizzata dalla qualità delle materie prime, prodotte in loco?».

Ma le peculiarità…

«Tu sei abituato alla cultura del viandante. Oggi c’è quella della globalizzazione: il cliente ancora prima di entrare in un locale sa cosa mangerà, perché l’ha letto su Instagram».

Ho capito, ma cosa mi dici del risotto alla lodigiana?

«Un’usurpazione nostrana, ci abbiamo messo solo il cappello. In realtà, il risotto alla salsiccia fu inventato dagli spagnoli, durante la loro dominazione nelle nostre terre, che erano fortemente nostalgici della paella. Neppure il riso è autoctono: fu portato dagli arabi in Spagna. Pensa che i Visconti ne cominciarono a fare uso, come regalo prezioso, intorno alla metà del Quattrocento: donavano piccoli sacchetti infiocchettati di riso. Forse di Lodigiano c’erano solo le cipolle, quello sì».

Dissacrante!

«Ma non voglio apparire tale! Noi lodigiani abbiamo avuto grandi meriti: le nostre terre irrigue ci hanno consentito abbondanti varietà di prodotti. Adesso siamo per la monocoltura, ma prima si avviavano diverse coltivazioni di cereali ed ai contadini non mancava mai il pane, durante ogni stagione. La fame, almeno sino ai primi del Novecento, ha costituito uno stimolo fondamentale per ingegnarsi relativamente al cibo».

Le tavole di un tempo sono molto diverse da quelle di oggi: cosa ha perso il Lodigiano, da potere rappresentare un rimpianto?

«Il Granone, su tutti: il tipico lodigiano è scomparso. Definitivamente. Ci ha provato Angelo Frosio a risuscitarlo, ma inutilmente: sono cambiati i campi, vi è stato l’abbandono del trifoglio bianco, e con gli incroci sono cambiate le razze delle vacche: impossibile riproporre il Granone di una volta. Poi il gelso, il glicine, il tarassaco, lo stesso risotto con le ortis è oramai un piatto raro».

E le rane?

«Quasi del tutto scomparse, non è più un piatto diffuso, è vero. La monocoltura ha dato una mazzata alla biodiversità non solo sui terreni, ma anche per quanto concerne tutto ciò che era collegato ad essi, compresi gli animali, soprattutto quelli che avevano il proprio habitat nei dintorni delle rogge».

Tu sei fra quelli che sostengono che i lodigiani non sappiano valorizzare i propri prodotti?

«Non lo dico io, lo si comprende dal nostro Dna: noi siamo quelli che, realizzato un latte d’eccellenza, grazie alla qualità del nutrimento di cui disponevano le nostre vacche, per via di terreni coltivati con sapienza, e del trifoglio che ti ho già detto, le nostre formaggelle andavamo a venderle nei mercati di Piacenza e di Parma, disinteressandoci se poi venivano spacciate per prodotti di loro produzione. Si teneva al guadagno, non alla visibilità. Occorreva riempire la pancia. E invece potevamo farci un nome».

Allora, a livello gastronomico su cosa deve puntare oggi un territorio per avere una propria riconoscibilità?

«Non bastano le denominazioni: tortelli, agnelotti, casoncelli, ma il concetto è pur sempre una polpettina di verdura o di carne all’interno di una pasta. Alla fine la differenza la fa la qualità dell’ingrediente del territorio, soprattutto quella che determina l’involucro. Una vera qualità, ricordatene, si lega anche ad un concetto chiave importante: quello dell’innovazione. Noi parliamo tanto di sushi, ma la vera cucina giapponese non la conosciamo: la sperimentazione non ha mai un confine determinato».

E verso dove possiamo andare, quale potrebbe essere la nuova frontiera da scoprire, in questa cucina non più tradizionale, ma esplorativa?

«Hai sentito che ora si parla degli insetti? Certo, la mia cultura mi fa provare ribrezzo. Ma un piatto di pasta con la farina di grilli non lo disdegnerei».

Paolo, ti prego!

«Ti fermi alle apparenze, alla superficialità di un approccio banalizzante? La farina ricavata dallo stato larvale degli insetti, colti negli scarti ad esempio dei prodotti ortofrutticoli, dovrebbe essere di eccellente qualità. Vedrai che si costituiranno appositi allevamenti di insetti per uso commestibile. È sicuramente una delle nuove frontiere della cucina, questa».

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