L’omaggio a Garibaldi per un ristorante che ha fatto la storia
Leonardo Meani, titolare dell’Isola Caprera di Lodi, è alla terza generazione
Ho incrociato decine di volte Leo Meani – titolare del ristorante Isola Caprera di Lodi – senza che nessuno ci abbia mai presentati. Oggi, mentre lo incontro in un pomeriggio freddo, forse l’ultimo della stagione, e il vento strapazza gli alberi del suggestivo parco del suo locale, lo ascolto con dissimulato interesse, mentre cerco di cogliere almeno una delle tante verità che ciascuno possiede e non rivela di se stesso. Dovrebbe essere, stando alle tante cose che ha fatto e realizzato, nel suo impegno imprenditoriale, come nello sport, un uomo di mondo. Più realisticamente, mi sembra una persona disincantata, capace di cogliere la bellezza delle cose, ma senza lasciarsene travolgere: un uomo che brucia e riaccende sogni e passioni ogni istante della propria vita, sapendo che tutto è breve, e va vissuto, tutto si perde, e tutto ricomincia.
Il nostro confronto riguarderebbe il cibo, nelle intenzioni. Ma parliamo di calcio, di musica, di società, di storia: ogni argomento finisce, e ne ricomincia uno nuovo. Appunto.
L’Isola Caprera è il ristorante più antico di Lodi, giusto?
«Sì, una volta c’eravamo noi ed il Tram. Poi, sempre noi e La Quinta. Alla fine siamo rimasti solo noi. Ricordo quando trovai un vecchio documento datato e lo presentai tutto contento in Camera di Commercio scoprendo che lì ne avevano di precedenti e più remoti. Qui arrivò mio nonno, che si chiamava Leonardo come me, ed era l’anno 1936».
Fu lui a scegliere questo nome? Isola Caprera è una denominazione insolita.
«Credo di sì; d’altra parte era repubblicano, mazziniano e soprattutto, da qui il nome del locale, garibaldino. Mio nonno, che era originario del lago Maggiore, era stato un giramondo: aveva fatto il tenore e si era esibito a Londra, a Mosca, in varie altre città. Qui vide un’opportunità conclusa la carriera artistica».
Il ristorante ebbe subito un certo riconoscimento.
«È vero, è stato sempre molto apprezzato. Nel locale si organizzavano pure i pomeriggi con il tè e la danza, e fu poi attrezzata una sala da ballo. Nel 1961 si esibì Mina; sono venuti i Nomadi ed I Profeti, e da noi si costituì il complesso dei Dik Dik, quando ancora era conosciuto come gli Squali. E sai chi li seguiva con interesse e venne ad ascoltarli, proprio qui in sala? Lucio Battisti».
Tu hai un’esperienza di lungo corso sulla ristorazione: perché il Lodigiano non ha quel riconoscimento che probabilmente meriterebbe?
«Una delle cause è da ricercare proprio nel bacino territoriale ristretto: realtà come Milano, come Bergamo hanno un’offerta che è ben assorbita. Qui invece il ritorno è inevitabilmente minore: andare in un ristorante e andarci con una certa frequenza è difficilissimo».
Ma perché?
«Il Lodigiano funge come zona depressa della Lombardia, conosci il nostro Pil?».
Il prodotto interno lordo? Dalla cucina all’economia, Leo!
«Solo per un secondo: qui da noi – secondo recenti stime - c’è un indice del Pil fra i più bassi a livello nazionale, pur essendo in Lombardia. Aziende, salvo un paio importanti, non ne abbiamo. La trasformazione dall’agricoltura è estremamente limitata. Ecco, allora, che la ristorazione rispecchia la nostra economia. Non ti sei accorto di niente osservando il territorio?”.
Di cosa?
«Siamo la culla della logistica: traffico, camion e pochissimo lavoro manuale perché, all’interno di quegli enormi padiglioni, è quasi tutto robotizzato».
Dopo tuo nonno, chi si occupò del locale?
«I miei genitori. Ma papà Gianfranco faceva politica, aveva un ruolo istituzionale al Comune, altri interessi. Chi prese in mano le redini di tutto fu mia madre Mariuccia (nella foto con Leonardo Meani, ndr). Anche se papà fece una scelta importante: chiuse la sala da ballo perché le frequentazioni cominciavano ad essere non più delle migliori».
Tua mamma è mancata un paio d’anni addietro, ma qui dentro era un’istituzione.
«Una donna instancabile: anche se andava a letto alle tre del mattino, quattro ore dopo, alle sette, era già in piedi. In cucina delegava allo chef, ma in caso di emergenza si rendeva disponibile anche a cucinare. Le devo molto. Finchè lei ha avuto le forze di fare da sola, mi ha lasciato vivere gli altri impegni e passioni della mia vita senza costringermi ad occuparmi del locale».
E la cucina?
«All’inizio era di tipo tradizionale: abbandonata la trota di fiume dei tempi del nonno, c’erano i classici tortelli alla panna, l’arrosto con patate, il roast beef, il salmone; poi a metà degli anni Settanta qui venne uno chef che cominciò ad avere idee importanti. Ai tavoli sino a quel momento si arrivava con un carrello contenente diverse portate, ed il cameriere riempiva i piatti dei commensali. Il nuovo cuoco era un antesignano dell’impiattamento: non più solo gusto, ma anche occhio. Era per quei tempi una rivoluzione».
Quanto è durato?
«Se uno è bravo, ha richieste. Come nel calcio. Lo corteggiarono e andò in altri ristoranti, sino ad arrivare mi pare a Londra, comunque all’estero. Si chiamava Carmelo Ferrari».
E un altro chef a cui riconosci dei meriti?
«Mauro Pedrinelli, che fece qui sette anni, poi vinse un concorso in ospedale per gestire la mensa, i ritmi di vita erano probabilmente più sereni, e prese quella strada».
Oggi chi è lo chef?
«Ho una squadra di validi collaboratori: su tutti, Andrea Fugazza, Stefania Mantovan, Luca Boriani».
Facciamo un gioco?
«Anche questo mi tocca?».
Una cosa semplice: dimmi una ragione per venire all’Isola Caprera che sia legata al cibo, perché il locale con queste sale così belle e questo giardino incantevole, già di suo merita una tappa.
«La scelta delle materie prime può convincerti? Intendo dal burro all’olio, dal pesce alla carne. Poi sui gusti troviamo un’intesa: potrei proporti un risotto cacio e pepe, dalla romanità alla lodigianità, un risotto classico alla lodigiana, una battuta di fassona oppure un vitello con crema di gorgonzola e, per finire, un gelato al caramello o in alternativa un tiramisù della tradizione».
A che ora si mangia?!
«Non ho ancora finito. Anche noi cerchiamo di valorizzare il territorio. Come universalmente noto, qui i pezzi forti sono latte e formaggio. E, allora, posso offrirti un risotto al pannerone e pere, oppure una pasta con la crema del grana tipico lodigiano, e al carpaccio aggiungiamo invece che le scaglie di classico formaggio, quattro fiocchi di raspadura».
Fate pure la pizza, mi pare.
«È vero, da aprile sino agli inizi di novembre, puoi gustare le nostre pizze: nello scenario del giardino che ti ha tanto colpito le troverai eccezionali. Farina d’eccellenza, mozzarella fior di latte di uno dei migliori caseifici, secondo la mia filosofia che punta alla migliore qualità possibile».
Nel tuo ristorante vengono tanti sodalizi associativi, questo non ha mai pregiudicato la relazione con i clienti sporadici ed occasionali?
«C’è posto per tutti, e menù differenziati. Quando la cucina non prevede alternative rispetto alla domanda, perché il locale è pressochè pieno, proponiamo al cliente se vuole accettare il menù previsto per quella sera, evitando la carta: e il più delle volte resta contento».
Leo Meani, ce l’hai un sogno nel cassetto?
«Occorre sempre averne, nella vita, nello sport, e pure nella ristorazione. Ma sempre sognando progetti realmente possibili, realizzabili, a misura delle proprie capacità economiche. Le idee non mi mancano, arricchite di inventiva: il cocktail giusto, alla base, c’è. Vedremo se matureranno».
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