Da Tokyo a Maleo, la sfida di Natsuko

LA CUCINA DELL’ANIMA La chef giapponese guida la Locanda Estate, nei locali dello storico Leon d’Oro

Al momento ne sono rimasto conquistato per la gentilezza e per i modi, tipici orientali. Ma a sentirle descrivere alcuni piatti che ha in questo momento sul proprio menu non ho alcun dubbio che pure la sua cucina è motivo di incanti.

Questo ristorante, Locanda Estate, nel cuore di Maleo, lì dove una volta c’era lo storico Leon d’Oro, è stata inaugurato nel giugno 2023 e da allora sta consolidando una buona clientela, che rende felice la chef giapponese Natsuko Amatatsu: «È bello quando la gente che è già stata qui ritorna: si vede che ha trovato buone le mie proposte e un’accoglienza che non è sfuggita».

Natsuko, non mi trovi invadente, ma mi incuriosisce come lei sia arrivata da Tokio.

«Una storia lunga, ma semplice: quando ero in Giappone avevo la curiosità di viaggiare e quindi necessitavo di soldi. Cominciai a lavorare in una piccola caffetteria per guadagnare qualcosa, ma ogni tanto capitava di cucinare la pasta e mi accorgevo che mi piaceva».

E quindi?

«Andai a lavorare in un ristorante più grande; qui mi capitò di incontrare un paio di chef di ritorno da esperienze italiane, di cui uno aveva lavorato all’Albergo del Sole di Maleo: e loro non facevano altro che parlare dell’Italia e della sua cucina. Capii che era il posto dove veramente avrei potuto imparare qualcosa di veramente importante. E così nel 2003 sono partita».

Senza alcuna certezza?

«Uno dei due chef aveva segnalato il mio nome a Giacomo, titolare di un apprezzato ristorante a Pizzighettone. Il primo anno e mezzo lavorai da lui come aiuto cuoca. Poi mi trasferii nelle Langhe, tra Asti ed Alba. Quindi ho lavorato a Cappella de’ Picenardi, alla Locanda degli Artisti, in provincia di Cremona».

Da chi ha imparato maggiormente?

«Giacomo è molto bravo. Anche Sergio Carboni: un grande chef che non ha mai perso la forza del lavoratore. Ma forse lo chef che mi è più rimasto nel cuore è quello avuto in Giappone: Tatsuya Kogo, un signore che gridava sempre e mi rimproverava qualunque cosa facessi, ma mi ha insegnato che senza un rigore estremo non si può avere la giusta creatività».

Che differenze trova tra la cucina lombarda e quella piemontese?

«Sono molto differenti, ma voglio premettere che i miei ricordi risalgono a quasi vent’anni fa, magari adesso le cose sono cambiate: in Piemonte puntano maggiormente su alcuni piatti classici, tradizionali, come la carne, cruda con tartufo, coniglio, porcini di stagione, oppure per antipasto peperone ripieno e insalata russa. Lì sono abituati a lavorare soprattutto con i turisti, quelle zone infatti sono attraversate da pullman di tedeschi e francesi».

Come si è ambientata in Italia?

«L’inizio è stato uno shock: a quei tempi c’erano ancora tante botteghe, dove io facevo la spesa. Ma per pranzo chiudevano e riaprivano solo nel pomeriggio. Da noi, in Giappone questo è impensabile, perché si lavora 24 ore al giorno, senza pause. Prenda le ferie…».

In che senso?

«Da noi è prevista una sola settimana in estate; ed un’altra, ma solo se va bene, nella stagione invernale».

Però in Italia ci sono tanti chef giapponesi.

«Vengono solo per fare esperienza, e non vedono l’ora di tornare a casa. Io ho scelto di rimanere, ho sposato anche un italiano. Certo a Kanagawa, vicinissimo Tokio, abitano mio padre ed un fratello con sua moglie ed il loro bambino: sono molto attaccata al mio nipotino. Ma qui ho messo radici».

La sua cucina è con piatti italiani: non ha mai avuto la tentazione di proporre anche cibo giapponese?

«Ho davvero cominciato a fare la cuoca in Italia. Però la mia cucina ha inevitabilmente una contaminazione con il mio luogo di provenienza: in ogni piatto che creo c’è inevitabilmente qualcosa che, anche inconsciamente da parte mia, riconduce al Giappone. Quando sento che nella proposta che arriva alla tavola manca qualcosa, allora, aggiungo un’essenza giapponese».

Perché sorride?

«Perché lei mi fa venire in mente un episodio: una volta un cliente ha mangiato una pasta al sugo di lepre. La gustò profondamente. Eppure, mi disse che avrei dovuto realizzare un sugo diverso, giapponese. Solo per catturare la curiosità. Ora, non per vantarmi, ma il sugo di lepre che faccio io, mi creda, è speciale: perché mai avrei dovuto sostituirlo con qualcosa del mio paese?».

Allora vediamolo questo menu, mi suggerisce un antipasto?

«Un cruditè di pesce, la cui marinatura ha un tocco speciale, come gli stessi condimenti di verdure croccanti in agrodolce: in questo piatto si coglie la mia natura giapponese. Oppure un involtino di girello di scottone con crema al caprino e salsa di fichi, visto che è la loro stagione».

Passiamo ad un primo?

«Può scegliere tra un piatto con sugo di carne, oppure col pesce, o uno alle verdure. Cambiamo spesso proposte. Suggerirei un risotto al pesto di alghe e basilico, con sautè di totani e zucchine, olio e limone».

Pesto di alghe? Lei fa centro nel mio cuore!

«Anche questa è una proposta che risente della mia origine giapponese! Le alghe da noi, come saprà, sono molto popolari. Queste, arrivano direttamente dalla Francia. La lavorazione? Lavo e scotto le alghe, macinate col proprio brodo, e quindi le mescolo col tradizionale pesto di basilico. Un altro piatto interessante sono i bottoni ripieni di provola affumicata, con sugo ai profumi dell’orto».

Mia moglie punterebbe sugli gnocchi, ma sono proprio al latte?

«Sì, con un tocco di noce moscata e sale per insaporirli. È proprio latte, lavorato sul fuoco, come se fosse una polenta, con un’aggiunta di fecola di patate. La consistenza è ottima, e sono serviti con ragù di anatra e finferli».

Virtualmente sono a posto! Ma se volessi un secondo?

«Vuole stare sul pesce? Un bel trancio di ricciola? Questo pesce lo faccio arrivare dall’Australia, ma anche nel nord dell’Europa vi sono ottimi allevamenti. Faccio una porzione rotonda, non troppo cotta, altrimenti rischia di diventare stopposa, quindi aggiungo un tocco di cipolle rosse di Tropea in agrodolce e pepe verde».

E se volessi invece puntare sulla carne?

«Un filetto di cervo della Nuova Zelanda; è una carne tenerissima, che non ha un particolare sapore di selvaggina, servita con salsa al porto e chicchi di uva fresca».

Riguardo ai vini, com’è la cantina?

«Fornita, confermando la tradizione di questo posto. Lascio libertà assoluta al cliente nella scelta; se col pesce vuole bere un Barolo non mi oppongo. Da noi in Giappone non c’è la fissazione sul vino che avete voi italiani, perché abbiamo molte alternative differenti: quindi mi è rimasto questo senso di autonomia nella scelta».

Un dolcetto?

«Qui siamo nel mio regno. Li cambio spesso, però. La crème brŭlèe? Adesso non c’è, ma può ancora approfittare della cheesecake alle pesche bianche con crumble al tè Earl Grey. Amo molto cucinare il Bonet. Come cos’è? Un budino servito con cacao ed amaretti, tipicamente piemontese».

Lei ha un aiutante in cucina. È severa?

«Non saprei. Credo che sia molto importante sapere fare bene il proprio lavoro. Ma la passione è un fatto individuale: non puoi imporla. Capisce cosa intendo dire? Il rigore da solo non basta per una buona cucina. Ci vuole passione, una straordinaria passione».

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