I dolci segreti custoditi dal maestro torronaio

LA CUCINA DELL’ANIMA A Codogno con Erick Fortina: la tradizione di famiglia affonda le radici nell’Ottocento

La piazza di Codogno prima ghermita di luci, attraverso lampade e lumi, comincia ad immergersi nell’oscurità, e le voci chiassose della gente, già attenuatesi nell’ultima ora, si sono quasi del tutto spente; c’è un transito di furgoncini su cui caricare tavole che fungevano da bancarelle, la festa si conclude, la fiera del paese, con le rilevazioni delle presenze e dei partecipanti, è già materiale di archivio.

C’è solo un tir che continua a sfavillare di luci, qualcuno si avvicina ancora, saluti e promesse di rivedersi, un ultimo acquisito fugace, se il commercio ha un’anima è in queste relazioni, fatte di pochi istanti, dove si condivide qualche istante della vita. Il Diavolo del Torrone, come vetrina, ha un vero e proprio transatlantico, interminabile, l’ho percorso in lungo, con finto fare distratto, e sono giunto trafelato al suo lato finale: quale abilità occorre avere per guidare un autoarticolato così imponente?

Erick Fortina, maestro torronaio, ne avrebbe tante da raccontare, a cominciare dalla propria azienda itinerante di famiglia, che origina dall’anno 1896, e che fu avviata dal bisnonno paterno. Pur essendo a fine giornata, nasconde agevolmente la propria stanchezza; solo la voce ogni tanto si arrochisce, appena appena. Chissà come deve apprezzare il silenzio, mi domando, mentre lo ascolto.

Da quanto tempo partecipate alla fiera di Codogno, Erick?

«Almeno cinquant’anni. E giusto oggi c’è stato un particolare che mi ha commosso. Si è presentata una signora che ha da poco compiuto i 100 anni. E mi ha ricordato che l’anno scorso le avevo promesso che, rivedendola, per festeggiare questo straordinario traguardo anagrafico, le avrei regalato uno dei nostri dolci. Sono stato felice di mantenere l’impegno. La signora mi ha cantato una canzone in dialetto milanese».

Con me giochi in casa: il torrone in Sicilia è qualcosa di irrinunciabile.

«Noi veniamo da Casale Monferrato, anche lì rappresenta una tradizione importante. Il mio bisnonno, in realtà, non si sarebbe mai spostato: i tre figli avevano proseguito l’attività dolciaria gestendo un negozio. Poi mio nonno Eugenio, un giorno, partecipò ad una fiera, a Spinetta Marengo, e lì si rese conto che in un solo giorno aveva fatto l’incasso di una settima. Da quel momento prese a girare per le fiere. Da allora non ci siamo più fermati».

Mi hanno raccontato che il nonno era una figura epica!

«Settant’anni fa, si vestiva da diavolo: abbinava l’eccellenza del torrone alla tentazione. Costava 50 lire all’etto, quel dolce. Ci si avvicinava a lui per vedere questo spettacolo, e a pochi passi c’era il nostro bancone. Ci sapeva fare; come mio padre Primo: anche lui, bravissimo e autentico intrattenitore».

A Codogno lo conoscono tutti, infatti. Come mai non è venuto questa volta?

«Ha i suoi 76 anni, preferisce evitare il freddo. Papà è sempre stato uno che con la gente ci ha saputo fare. Qui alla fiera di Codogno i maestri torronai erano due: Felice Canio e papà. Ecco, mio padre era uno che sapeva andare incontro alla gente per promuovere il suo prodotto. E poi è sempre stato innovativo: una volta fece il torrone al gusto di uva. E un’altra volta entrò nei Guinness dei primati per avere realizzato un torrone lungo 61 metri e 59 centimetri. Non voleva neppure tagliarlo, tanto gli piaceva quella realizzazione».

È difficile fare il torrone?

«Una volta si usavano le padelle di rame, ora abbiamo una macchina a bagno d’olio dentro cui mettiamo a 200 gradi i nostri ingredienti: bianco d’uovo, miele, un poco di zucchero. Ci vuole una bollitura lenta lenta di circa 8 ore per ottenere il torrone di qualità dura. La metà del tempo per quello morbido. Ma il vero segreto sta nella friabilità: le mandorle e le nocciole, successivamente aggiunte, vanno inserite nella macchina già calde altrimenti gli ingranaggi si spaccherebbero. Poi il torrone va messo negli stampi, alcuni possono poi essere ritagliati, altri devono rimanere nella forma originaria. D’altra parte il torrone varia di luogo in luogo».

In che senso?

«Ciascuno ha il proprio. Siamo vicinissimi a Cremona, no? Ma lì hanno un proprio torrone, con una sua specificità. Per non dire della tua Sicilia, dove ha caratteristiche agrumate. Il torrone perde la sua originalità nella vendita della grande distribuzione: al supermercato qualunque prendi ha lo stesso gusto ed è privo di identità. E sai qual è un’altra caratteristica fondamentale?».

Dimmi.

«Le grandi industrie usano il glucosio. Noi invece usiamo esclusivamente il miele, di acacia possibilmente, oppure il millefiori: vuoi mettere?».

Ma cosa differenzia comunque torroni di qualità?

«Ad esempio la provenienza delle nocciole: puoi avere quelle di esportazione turca, utilizzate in meridione, o quelle romane; noi usiamo solo la nocciola IGP del Piemonte, la tonda gentile, molto raffinata e ricercata. E ne facciamo una selezione accuratissima: se una di esse ha la pur più piccola impurità viene scartata. Ci rivolgiamo da anni allo stesso produttore, segno di garanzia».

Insomma, è un marchio di qualità mi pare di capire.

«Altro che! Sai a quanto quest’anno è stata venduta a kg la nocciola piemontese? Spara!».

Non ne ho la più pallida idea.

«A causa del maltempo, quella delle langhe era a 25 euro. E il cioccolato? Prezzi triplicati rispetto all’anno precedente. Malgrado questo non abbiamo ritoccato i costi: il prezzo del torrone è rimasto identico nelle nostre offerte».

Il vostro tir è stracolmo di torroni: quanti tipi ne fate?

«Fosse per me, il torrone dovrebbe essere o interamente bianco o ricoperto di cioccolato. Ma la gente ha esigenze e gusti diversi, e noi cerchiamo di accontentare i clienti».

Ti faccio una domanda secca: il torrone ha una sua stagionalità?

«Il mese di dicembre è quello in cui c’è maggiore richiesta. Tutti vogliono il torrone nelle tavole del Natale. Ma noi siamo operativi tutti i mesi dell’anno: d’estate ci spostiamo in Valle d’Aosta, lì di sera fa freschetto e i villeggianti si lasciano tentare dalla bontà del torrone».

Però qui vi limitate solo alla vendita, giusto? Non lo cuocete, per così dire, in presa diretta.

«No. Ma saremmo disposti a farlo. Solo che per portare il macchinario e tutto ciò che occorre abbiamo necessità di una permanenza maggiore. Non possiamo farlo in tre, quattro giorni di fiera. Se a Codogno o a Lodi ci venisse offerta la possibilità di un periodo più lungo di sosta, potremmo farlo: sarebbe uno spettacolo coinvolgere le scolaresche, fare conoscere ai bambini come si produce il torrone, qualcuno potrebbe appassionarsi, promuovendo un percorso nel cibo e nei prodotti offerti dalla natura. Io più di dare la mia disponibilità, però, non posso».

Non vedo l’ora di incontrarti nuovamente: prossima tappa alla fiera di Santa Lucia di Lodi, suppongo.

«Purtroppo, non ci saremo. Anche lì, dopo mezzo secolo di presenza».

E come mai?

«Da quello che ho appreso, quest’anno commercianti e produttori dovranno stare, in una cornice coreografica, all’interno di casette di legno. Ma noi abbiamo il tir, non possiamo limitarci ad una casetta. Così non abbiamo riscontrato quei requisiti per potere partecipare. È una grande delusione anche per me. Speriamo che nel futuro si possa realizzare questa idea di abbinare alla nostra macchina una sorta di laboratorio creativo: secondo me, avrebbe successo. Il Lodigiano ha piazze a cui la mia famiglia tiene molto: non esservi è come sentirsi radicati, per noi che siamo comunque giramondo».

Erick, ti ringrazio molto per questa piacevole chiacchierata.

«Aspetta, dove vai? Non vuoi fare assaggiare ai tuoi famigliari i nostri torroni, posso farti un omaggio?».

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