«I miei amici giocavano con il pongo, io invece con i ritagli dei ravioli»

Conosciamo Stefano Scolari, chef dell’Antica Osteria del Cerreto, ad Abbadia Cerreto

A Stefano Scolari, chef dell’Antica Osteria del Cerreto, locale vicino alla bellissima abbazia di Abbadia Cerreto, gradi, galloni e menzioni riservategli dagli addetti e specialisti dei lavori culinari, bisogna estorcerglieli perché lui, con saggia umiltà, li tace. È un uomo che profuma di radici, quelle della famiglia, di chi sa che il passo va fatto a misura della propria gamba, anzi per prudenza con qualche centimetro in meno. Ma più che la modestia, emerge in Stefano un evidente senso della passione per la cucina, i piatti buoni, la sana relazione con il cibo, la pasta fresca, sempre lavorata in casa, stesa sul tavolo, come quando era ancora fanciullo, fingeva di fare i compiti ed invece si lasciava avvolgere dalla maestria di mamma Anna: «Quelli della mia età giocavano col pongo, io con i ritagli dei ravioli: la cucina è stata nel mio destino sin dall’inizio».

Mai desiderato fare un altro lavoro, Stefano?

«Da bambino mi affascinavano i carabinieri: fermavano le auto, ed io percepivo in chi conduceva la macchina una forte agitazione, il rispetto per la divisa, per l’autorità. Oppure, poiché facevo motocross, mi immaginavo pilota di moto. Ma erano i sogni tipici della prima infanzia. A tredici anni, finite le classi medie, ero invece in cucina, assistente della mamma».

Tu sei nato qui?

«Casualmente a Rho. Mio padre, Domenico, è invece di Cadilana, anche se sulla sua carta di identità sta scritto Orzinuovi. Mia madre è originaria di Credera Rubbiano. La vedi questa motocicletta, che tengo esposta qui nel locale? Era quella con cui papà raggiungeva il paese dove abitava la mamma. Appena si sposarono emigrarono a Milano, andando a lavorare in fabbrica»

Cosa faceva papà di mestiere?

«Aveva cominciato come operaio ed era stato adibito alle procedure per la tempera in induzione, cioè a quelle lavorazioni per indurire il ferro degli ingranaggi di qualsiasi macchinario. Mia madre faceva la cuoca nella mensa della stessa fabbrica. Cucinava per gli operai come si trattasse di una famiglia allargata. I suoi piatti erano così apprezzati che un pensiero le venne naturale».

Provo ad immaginarlo?

«È facile: le venne spontaneo chiedersi perché non rilevare un locale per farne un ristorante in proprio, anche qualcosa di semplice, alla buona. Ma i prezzi a Milano erano inaccessibili. Dei parenti le proposero di rilevare l’affittanza di un locale a Cadilana, che fino ad allora era stato una sorta di bar con annessa piccola trattoria. Nacque così il nostro primo ristorante, conosciuto come Antica Osteria Lungo l’Adda. I miei ci investirono tutti i loro risparmi. Era il 1987».

Papà doveva avere una grande fiducia nella tua mamma.

«Sicuramente. Lui è un tipo schivo, non è che sia tanto portato ad intrattenere i clienti. Però sistemava la sala, curava il giardino, spaccava la legna per il camino».

Tu da chi hai preso caratterialmente?

«Da mia madre: mi riconosco grande spirito di adattamento al lavoro, una passione inesauribile, perché, se non hai dentro questo entusiasmo, ti arrendi davanti ai sacrifici, agli orari impossibili, alle feste mancate perché sei occupato a fare festeggiare gli altri. Mio fratello Alessandro invece ha preso dal papà: loro sono più tranquilli, persone di grande equilibrio, in pace con se stessi».

Quando hai cercato una strada che fosse solo tua?

«Nel 1995 qui ad Abbadia Cerreto i miei avevano preso questo immobile, che originariamente fungeva da bar e lo avevano dato inizialmente in gestione. Poi nel 2000, finita quella conduzione, io avevo 18 anni e chiesi a mia madre di puntare su di me. Le dissi: proviamo per un anno. È andata bene».

Dammi una risposta da esperto a questa domanda: perché, a livello gastronomico, nel panorama nazionale, il Lodigiano arranca nelle retrovie?

«È un dato vero, purtroppo, ma non me lo spiego. Perché qui, sul territorio, si mangia bene. Un collega come chef Mario Colombani è stato citato dall’Associazione Ristorante Buon Ricordo. Altri hanno i loro apprezzamenti».

Tu stesso hai avuto la menzione sul Gambero Rosso.

«Sì, ma non è una questione individuale. Forse noi chef, nel Lodigiano, dobbiamo rafforzare il percorso della nostra identità per essere maggiormente riconosciuti. Faccio un esempio: nel mio menù non c’è il pesce di mare, ma solo quello d’acqua dolce. Cerco di valorizzare i prodotti del territorio: l’anguilla, lo storione, per dire. Il risotto che noi serviamo nelle ceramiche della Vecchia Lodi rispecchia la tradizione più autentica: zafferano, ragù di salsiccia e pancetta, che deve cuocere almeno 8 ore, e raspadura».

8 ore, è un’esagerazione, chef!

«Anzi, è il minimo. Il ragù deve essere ben concentrato. Per servire una buona cena, il lavoro in cucina comincia alle 8.30 del mattino. Prendi le mezzelune ripiene di magatello arrosto: tritare ben bene la carne di vitello è fondamentale, e la pasta ha il suo tempo di lavorazione. Ci vogliono tre persone per le quantità che disponiamo su questa lavorazione».

Quanti dipendenti hai? È vero che in cucina voi chef siete dei veri tiranni?

«Dodici dipendenti, ma distribuiti su turni diversi. Posso dirti che con i miei ragazzi ho un rapporto bellissimo. Capita che li riprenda, ma solo per migliorarli, mai con atteggiamenti di superbia o prepotenza».

Vedi in loro potenziali chef in autonomia?

«È già accaduto. Un mio aiutante ha sposato una dipendente che lavorava in sala ed hanno aperto un locale per conto loro. Sono stato contento. Ma non tutti gli chef cercano un percorso proprio: Gianni, il mio secondo, lavora con me da venti anni, e questo ruolo sembra stargli bene».

Mi intriga una domanda stupidissima: mangi prima o dopo la clientela?

«Ceno prima, alle 18.30 il mio gruppo ed io siamo con i piedi sotto al tavolo. Piatto unico, e possibilmente leggero».

Chi sceglie il menu?

«Io, ma mi consulto con i miei aiutanti. Prima di inserire una proposta la proviamo, e arriva sulla tavola soltanto quando siamo sicuri del buon effetto. Normalmente il menu segue il corso delle stagioni, mentre altri piatti restano fissi. Polenta e brasato, ad esempio, vanno da metà ottobre sino a dicembre. Mentre le tartare in primavera ed in estate».

Impiattare è davvero così fondamentale in cucina?

«È una componente importante, perché è la prima presentazione del cibo: come noto, prima si mangia con gli occhi».

La cucina, intesa come buona tavola, è cambiata nel tempo?

«Tanti anni fa i vegetariani erano vere e proprie eccezioni. Oggi sono tanti. E c’è molta più attenzione verso il cibo biologico. Ricordo quando per la prima volta apprendemmo in cucina che c’era un cliente in sala che aveva un’intolleranza al lattosio. Ci guardammo smarriti. Adesso può capitare di frequente. È cambiato il nostro organismo, e conseguentemente il modo di mangiare».

Ci saranno ulteriori modifiche in cucina, in futuro?

«Secondo me, si farà più fatica a trovare vera qualità. Ma è il fornitore a curare meno questo aspetto: succede al supermercato, e accade con il cibo che arriva in qualunque tavola. La scommessa sarà dunque cercare di preservare la qualità».

E tu come sei cambiato nel tempo? Avevi 18 anni, quando sei arrivato qui, oggi sei sui quaranta…

«Sono più sicuro di me stesso, e questo mi dà tranquillità anche nella cucina».

Ma quando vai in vacanza e ti capita di mangiare nel ristorante dell’hotel lo dici allo chef di essere un collega?

«No, sto sulle mie. Questa estate sono stato a Madonna di Campiglio e ho mangiato benissimo. Apprezzo la buona tavola, sono una buona forchetta, e mi piace trovarmi dall’altra parte. Io in casa sono soltanto una sera alla settimana, e in quella occasione porto mia moglie a mangiare fuori».

Tua moglie sta ai fornelli anche lei?

«No, Veronica è laureata in legge con master in criminologia, ma per ora sta crescendo il nostro bimbo, Filippo. Anzi, a dire la verità, se proprio si sta in casa, cucino io: ma senza pretese, e senza indossare l’abito da chef, si mangia così come viene, con quello che ispira il cuore».

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